Case vuote e desuete a monito del tempo che incessantemente ci invade e usurpa, l’incedere lento e risoluto di chi vive a causa del suo lavoro, Piecework, termine che descrive il lavoro pagato per quantità, non tempo, ci narra di questo e molto più. I Kowloon Walled City, gruppo Californiano dalla lunga carriera, dopo ben 5 anni di attesa, senza contare uno split con gli eccellenti Ken Mode, sono tornati con un nuovo album pubblicato da Neurot Recordings. Piecework è un album che riprende e continua una parabola artistica dove Grievances ci ha lasciati. I ritmi incalzanti dei primissimi album, sludge metal alla High on Fire, ha lasciato spazio, come una gioventù, ormai più di 10 anni fa, a un suono sempre più calcolato. Un suono vicino ai Neurosis che sempre più si appoggia, quasi fosse artisticamente e umanamente stanco del suddetto passare del tempo. Siamo passati comunque attraverso ere ritmicamente incalzanti in Container Ships e qui possiamo benissimo notare l’evoluzione e chiaramente la band non guarda indietro, non richiama al suo passato. La band cerca espressività in ciò che manca, negli spazi negativi, dove altri gruppi avrebbero magari dato un graffio, una sfuriata, i Kowloon Walled City si richiudono a mostrarci tutte le loro cicatrici, squisitamente doom in chiave personalissima. Il disco non scade nei cliché di band alla Black Sabbath con streghe, caproni e compagnia bella. Invece, ci vuole parlare delle nostre vite in una spirale in discesa ma comunque in cerca di riscatto, quel sentimento totalizzante di disgrazia all’orizzonte, “doom” appunto, che però è affrontato a testa alta e coraggiosamente. Stoicismo del XXI secolo.
Dal punto di vista dei suoni e della composizione, le chitarre di Scott Evans, anche cantante, e Jon Howell sono sempre meno distorte, pensando al passato, più languide; si soffermano di più per farci assaporare gli accordi. Un approccio altamente artistico che privilegia la malinconia e scale discendenti e minori che permeano tutto l’album. Ogni singolo colpo di batteria di Dan Sneddon, batterista alla prima registrazione con la band, è calcolato e misteriosamente ipnotizzante. Non cerca certo di ispirarci a scapocciare, vuole essere come i movimenti di un abile conduttore d’orchestra che descrivono la passione del pezzo scandendone la melodia.
Un elemento che risalta benissimo in questo mix, quasi dolce e che culla, è il basso di Ian Miller che ci sostiene e crea, quando la situazione lo richiede, tantissima dinamica, spingendo le canzoni più di qualsiasi altra parte del gruppo che sostenuti da questa parte ritmica crea atmosfera. Scott Evans, come cantante, seppur non ci stravolge nella sua ricerca sonora ha un tono di voce che sembra sempre essere adatto al momento e ci regala un pieno di emozioni che colorano tutte le canzoni. Tematicamente si parla anche tanto di famiglia; il padre di Scott Evans è morto durante la composizione di questo album, e ci dice che le donne nella sua famiglia, sua nonna materna, sono state le persone che gli hanno permesso di continuare dopo la perdita. Un album intimista che porta un nome in onore della suddetta nonna, lavoratrice a cottimo nel Kansas.
Le canzoni migliori dell’album sono quelle che invece che trascinarci in basso tristemente, ci elevano e ci danno un assaggio quasi epico-tragico. Splicing è una delle canzoni che più mi ha colpito, proprio perché insieme al resto dell’album, “stona” in modo piacevolissimo, come dopo una tempesta vedere il sole che scorge tra le nubi. Il finale è incredibilmente carico. Anche Lampback segue questa dinamica e, seppur alla fine della canzone, rimane la più convincente, lasciarla in fondo è probabilmente apposta catartico. Il riff che parte da metà canzone è emotivamente e tragicamente immenso e ci lascia pronti ad affrontare tutte le avversità di una vita che è fatta per remarci contro.
Il vantaggio dello stile che i Kowloon Walled City hanno intrapreso è che appena spingono un po’, pochissimo, l’acceleratore, siamo catapultati, un gioco di dinamica di gran livello. L’album non è immediato, non è scapoccione, non è stiloso in senso stretto. Al contrario, Piecework è un viaggio introspettivo pronto a lasciarti molto più di quanto ti aspettavi di poter ricevere. E mi raccomando, ricordati di chiamare i tuoi ogni tanto.
(Neurot Recordings / Gilead Media 2021)
1. Piecework
2. Utopian
3. Oxygen Tent
4. You Had A Plan
5. Splicing
6. When We Fall Through The Floor
7. Lampback