Il periodo appena trascorso ha lasciato segni indelebili in tutti. Tutti siamo, più o meno, convinti che la gente là fuori abbia perso la brocca e ci si ritrova in una guerra sociale che mira più al farci sparare sentenze l’uno verso l’altro che al tentare di ritrovare un dialogo necessario e basato su una coscienza critica che sembra ormai svanita. In un contesto del genere ci si ritrova più labili, inadatti alle interazioni sociali e sempre più isolati. Ecco, in questo periodo storico Engine of Hell di Emma Ruth Rundle sembra perfetto e ne rappresenta una delle possibili colonne sonore.
Un disco fatto, a detta della cantautrice americana, proprio per mettere a nudo le proprie fragilità e imperfezioni, mostrando l’essere umano in tutto il suo decadente splendore. Il risultato è un disco tremendo – nel senso positivo del termine – eseguito con una sensibilità e una interpretazione che lascia sgomenti. Gli indizi c’erano tutti fin dagli esordi (come dimenticare lo stupendo Some Heavy Ocean?), ma la maturità raggiunta nella voce rotta e negli arrangiamenti minimalisti certifica definitivamente come Rundle possa aspirare a essere considerata una delle migliori cantautrici alternative, scomodando importanti paragoni che vanno da P.J. Harvey a Tori Amos, da Joni Mitchell a Chelsea Wolfe (con la quale vi sono state numerose collaborazioni nel recente passato), da Jarboe a Nico. Diversamente da queste ultime due in particolare però la profondità gotica ossessiva viene sostituita da un’emotività straziante e incredibilmente genuina, lungi dall’essere una mera riproposizione di moda di certi stilemi abusati nel genere. Posate nel ripostiglio le distorsioni sludge usate in compartecipazione con i Thou, il disco comincia con la meravigliosa “Return”, singolo apripista di Engine of Hell, nella quale l’interpretazione vocale di Emma Ruth Rundle viene portata percettibilmente al limite della rottura e non può lasciare indifferenti, considerando anche la sintonia più che azzeccata tra melodie e testo. Il tutto viene anche condito dal meraviglioso videoclip nel quale è evidente la volontà di accompagnare il messaggio sonoro anche a un linguaggio del corpo memore degli insegnamenti di un certo David Bowie e, soprattutto, dell’ancor più seminale Lindsay Kemp. La straziante “Dancing Man” si muove sulle stesse coordinate, arrangiata unicamente da un piano che, assieme alla voce della cantante, è un inevitabile secondo protagonista del disco che fa evolvere il pezzo tra delicatezza e inquietudine. Il secondo singolo, “Blooms of Oblivion”, mostra invece un arrangiamento chitarristico, sempre ridotto al minimo, qua e là rafforzato da alcuni archi. Anche qui, l’interpretazione e il peso enfatico dato alle parole lascia spiazzati: “There’s a love like you’ve never known pinned to your finish”, canta Rundle, rendendo questo pezzo un vero cantico del trapasso e della desolazione a cavallo tra ricordi di infanzia e reinterpretazioni adulte del dolore. Sulle stesse coordinate si muove anche la tormentata “The Body”, proiettando su sé stessa il trasporto del cadavere di una persona cara in una sala mortuaria non meglio definita. La voce di Emma Ruth Rundle conferma tali vette di espressività in “Razor’s Edge”, “Citadel” e “The Company”, ballate dal sapore folk, che ricordando come punto di partenza le composizioni più riuscite di Some Heavy Ocean e qualche esempio proveniente dal mondo alternative anni ’90 (Smashing Pumpkins, Temple of the Dog e altri), forgiano melodie memorabili e coinvolgenti, segno ulteriore della ricerca fatta in tal senso dall’artista californiana nelle ultime uscite. Chiude il lavoro forse la traccia migliore del lotto, “In My Afterlife”, nella quale il percorso tracciato da Emma Ruth Rundle arriva a compimento, segnando un nuovo inizio che lascia strascichi in una nuova vita, segnali indelebili espressi dalla voce sempre più malinconica e immersa nella rassegnazione della cantante. Questa traccia esprime una costante volontà di riportare a galla i ricordi più intimi e traumatizzanti della propria vita, un eterno ritorno che porterà a nuovi e futuri aldilà da una prospettiva sempre più distaccata, sperando prima o poi di diventarne liberi. Engine of Hell dunque rappresenta proprio questo: un motore infernale che, contro il nostro volere, riporta a galla come uno psicoterapeuta tutto ciò che nella vita ci ha fatto soffrire, forzandoci a rivivere ricordi, sensazioni e memorie, per poterli eviscerare e comprendere.
Engine of Hell è un lavoro senza filtri che mostra un ritratto, volutamente rappresentato allo specchio, di un essere umano in preda alle proprie angosce che parla al mondo coraggiosamente, a cuore aperto, come dovrebbe fare ogni artista. Un lavoro tenero e straziante che trasporta catarticamente il dolore in conforto, tramite la musica, le parole, i gesti. Insomma, tramite tutto quello che Emma Ruth Rundle è in grado di offrirci, e non è mica poco.
(Sargent House, 2021)
1. Return
2. Blooms of Oblivion
3. The Body
4. The Company
5. Dancing Man
6. Razor’s Edge
7. Citadel
8. In My Afterlife