Un nome noto per chi si nutre di un determinato tipo di metal, un determinato tipo di death metal. Quello più dilatato, più obliquo. Quello più dissonante e meno diretto, volendo anche più abissale. Quello che si sta espandendo a macchia d’olio. I Barús certo non sono poi così riconducibili a sonorità tipiche di gruppi come Gorguts o Malthusian per via della “pazienza” che presentano in questo lavoro, ma percorrono un sentiero abbastanza parallelo a quella strada.
La band viene etichettata (o venduta… brutti termini) come progressive death metal, ma a parer mio non è così facile identificare queste sonorità, perché sono così tanto ibridate, così tanto amalgamate che dire semplicemente progressive death metal è molto riduttivo. Ripercorrendo la loro carriera ci si rende conto di come i francesi stiano evolvendo la loro proposta sempre più, cercando di renderla sempre meno accessibile, quasi elitaria. Barús, il primo EP, era quasi un death metal abbastanza canonico, strano senza dubbio, ma comunque non così inusuale; Drowned invece iniziava a dilatare i tempi e andava a parare verso sonorità ben più complesse, fatte di riff che non sono riff, però ancora molto fruibile. Ma questo Fanges è tutta un’altra storia. Senza dubbio il minutaggio dei due pezzi che compongono il disco fanno la loro parte nella difficoltà di godere di questa opera da parte di un pubblico maggiore, parliamo di più di mezz’ora con solo due brani, ma non è solo questo; i brani sono sì lunghi, ma anche lenti, pesanti, impastati, strascicati e con una struttura così evanescente e incorporea da percepirli in due modi possibili. Il primo: ti sembra che in realtà i brani siano molti di più; il secondo: sai che i brani sono solo due e non riesci ad ascoltarli fino in fondo. Molto probabilmente chi mi legge pensa che io stia criticando questo disco in maniera negativa, ma assolutamente no. Questo è un disco coraggioso e molto testardo, testardo nel senso che fa quel che vuole fare, fregandosene altamente di quello che vuole il mercato musicale o un ipotetico pubblico che non tollera brani da più di sei minuti con struttura classicamente intesa. Fanges è un disco per nulla dinamico, carico di brutti presentimenti, un marasma oleoso in cui invischiarsi senza possibilità di uscirne. Le chitarre, ruvide e fangose, intraprendono sentieri particolarmente tortuosi, incontrano bivi in cui lasciare il testimone ad arpeggi deliziosi, pulitissimi talvolta clean, talvolta direttamente di acustica; questo dona al disco un forte senso di mutevolezza, ma una mutevolezza lenta, che si adatta a delle ipotetiche condizioni atmosferiche che cambiano con il passare di molti eoni. E lo stesso vale anche per tutto il resto, la sezione ritmica, le calde note vomitate dal basso e soprattutto la voce che più che cantare sembra raccontare qualcosa con ferma convinzione e un carattere che è ora dolce e rassicurante, ora duro e severo. È inutile citare uno dei due brani nello specifico per scrivere nel dettaglio di questo imponente disco per l’impossibilità del compito. “Fanges” e “Châssis De Chair” non sono canzoni che puoi descrivere con parole, sono piloni, colonne immense e monumentali dalla forma indefinibile in cui confluiscono una marea di stili, influenze e sfumature. In cui ogni singolo elemento è piazzato esattamente dove deve per concorrere al compito di erigere qualcosa che è così massiccio, riflessivo, furioso e terrificante da lasciare l’ascoltatore spiazzato e incapace di render conto su cosa ha appena ascoltato. Fanges è meraviglioso, ma…
…Fanges è meraviglioso, ma non è un disco da affrontare senza sapere a cosa ci si sta per approcciare e forse anche conoscendo i lavori precedenti della band sarebbe impossibile farsene un’idea prima di andare all’ascolto effettivo. La cosa che più mi sorprende, almeno personalmente, è quella secondo cui questo non è un disco che consigli a qualcuno che ascolta una determinata cosa. Certo ci sono i momenti in cui si potrebbe dire “ecco questa parte può ricordare i Convulsing (altra band che in quanto a minutaggio dei singoli brani non scherza) e quest’altra parte i The Ocean…”, ma nel complesso si tratta di un prodotto non proprio unico, ma sicuramente abbastanza raro da trovare in giro. È un disco molto consigliato se non si ha quel brutto vizio di skippare un brano solo perché dopo dieci minuti ancora non è “iniziato”, va preso con tutte le pinze del mondo per poterlo apprezzare, non è un’impresa da tutti.
(Aestethic Death, Breathe Plastic Records, 2021)
1. Fanges
2. Châssis De Chair