PANOPTICON è la gabbia in cui abbiamo volontariamente scelto di isolarci. Uno spazio che dedichiamo alla musica che più ci piace, e di cui preferiamo parlare senza alcuna fretta. Da, diamo uno sguardo a tutto ciò che abbiamo trascurato nei mesi scorsi e facciamo una cernita delle primizie musicali più particolari, assorbendo e godendo di ogni loro cellula. (C.F)
KRALLICE > CRYSTALLINE EXHAUSTION
Come se non bastassero tutte le sperimentazioni presenti nella loro musica, visto il loro black metal angusto e contorto, con Crystalline Exhaustion i Krallice pare abbiano voluto continuare a osare, cambiando tutti, tranne il batterista Lev Weinstein, il proprio ruolo nella line-up. Colin Marston è passato dalla chitarra alle tastiere, Nicholas McMaster dal basso alla chitarra e Mick Barr viceversa. Il risultato? Un album che dimostra come, pur con una line-up atipica, la band statunitense sia una fucina di idee che non perdono mai il loro valore. Come già accaduto in passato, anche nel loro undicesimo album l’atmosfera è l’elemento centrale del lavoro, e trasporta l’ascoltatore in scenari caleidoscopici e surreali. Questi passaggi atmosferici in cui i sintetizzatori si prendono un’abbondante fetta delle attenzioni coesistono con la tipica natura cervellotica delle composizioni. Addentrandosi nell’ascolto si è sempre più sopraffatti dai paesaggi sonori in continua evoluzione, e abili nel rapire sempre di più con un fascino macabro piuttosto che risultare pletorici. Una continua mutazione, tra riff spietati, tregue atmosferiche e parti vocali che a loro volta aggiungono un tassello fondamentale, quando chiamate in causa. Non è un caso se i Krallice sono annoverati come capisaldi del black metal sperimentale e d’avanguardia. (Jacopo Silvestri)
FONTAINES DC > SKINTY FIA
Con il proprio terzo album in studio, Skinty Fia, gli irlandesi Fontaines DC sono riusciti a diventare una delle formazioni più discusse ad acclamate del 2022. Con una passione posata, che brucia di una fiamma musicale elegante ed estremamente inglese, il gruppo riesce ad appassionare per l’intera durata del lavoro, attraverso suoni che uniscono il post-punk intellettualoide degli Arctic Monkeys e l’indie rivoluzionario dei Franz Ferdinand. Qualcosa di estremamente malinconico eppure sottilmente gioioso, quasi inebriante, permea tutta l’opera, a suggerire che la vita a volte (forse) non fa poi così tanto schifo. Il sentimento che intride l’intero lavoro, rendendolo spiritualmente e forse accidentalmente un concept album, è di un tipo raro, dello stesso della tristezza che ti assale nell’imbrunire estivo, quando hai l’impressione che potresti vivere decisamente meglio il tempo che ti si srotola sotto i piedi. Se una grande parte del lavoro è fatta dalla meravigliosa voce di Grian Chatten, le attutite ritmiche punk delle pelli e l’essenzialità dell’esecuzione strumentale, che sa tanto di The Wombats nell’accoratezza di certi passaggi, donano a Skinty Fia un’atmosfera davvero unica, mancante nel precedente A Hero’s Death (2020). Poco altro resta da dire. Pezzi come “I Love You” o “Jackie Down The Line” rimarranno nella storia del genere e probabilmente il lavoro, delicato come pochi realizzati quest’anno, comparirà nelle liste di molti, molti appassionati. (Davide Brioschi)
CARPENTER BRUT > LEATHER TERROR
Carpenter Brut non solo ha contribuito a sdoganare la synthwave, ma ha avuto anche il pregio di non adagiarsi sul già sentito e di continuare a far crescere il suo mostro musicale mutaforma dandogli in pasto sempre nuove e più arcigne sonorità. Leather Terror cattura e non lascia scampo con la sua elettronica ottantiana vintage ma non sfacciata, che si sposa a ritmiche ossessive e orrorifiche e a riff ora abrasivi, strappati e violenti, ora più sinuosi e dal fare pop. Da sempre il Nostro flirta con il metal e con sonorità più crude e taglienti, e va oltre la pura e semplice synthwave grazie a una serie di ospiti attorno ai quali intesse trame sempre diverse, che ben si adattano alla provenienza dei musicisti via via chiamati in causa. E così “…Goodnight, Goodbye” con Rygg e gli Ulver o “Stabat Mater” con Sylvaine navigano in atmosfere crepuscolari e nostalgiche, contrapposte alla tensione crescente e all’irruenza di “The Window Maker” (Gunship) e “Leather Terror” (Johannes Andersson/Tribulation). In mezzo a tutto questo abbiamo pezzi come “Day Stalker” e “Night Prowler”, veri e propri marchi di fabbrica del Carpenter Brut-pensiero. Da ascoltare di notte, in auto, e a volume piacevolmente smodato. (Federico Botti)
IGNITE > IGNITE
Il nuovo disco degli storici Ignite (attivi dai primi anni ‘90) arriva in un periodo storico decisamente cupo che necessitava un po’ di spensieratezza. Questo omonimo Ignite rappresenta una sorta di doppia svolta in quanto vede l’ingresso del nuovo vocalist Eli Santana e soprattutto porta il melodic hardcore del combo americano ad un nuovo stadio. Se un notevole disco come Our Darkest Days esprimeva un assalto micidiale pregno di oscurità ed il successivo, A War Against You, puntava sull’immediatezza, questo recente lavoro passa da episodi quadrati ed immediati (la party song “The House Is Burning”, i martellamenti sonici di “Anti-Complicity Anthem”, i cori battaglieri in “This Day”), a violenza ai limiti del metal (“Call Off The Dogs”) per finire a sfumature alternative rock (“Let The Beggars Beg”). L’aspetto più interessante è l’uso della stratificazione che sbuca fuori ad esempio in “The River” che sollazza gli animi con dei giri melodici più elaborati e cambi di tempo imprevisti, “On The Ropes” che è un susseguirsi di inseguimenti fra chitarre ed impianti corali non indifferenti mentre il contagioso groove di “The Buther In Me” e l’epicità di “State Of Wisconsin” completano il meraviglioso quadro. Chorus a presa rapida, tecnica e divertimento. Ottimo ritorno! (Enzo Prenotto)
MESHUGGAH > IMMUTABLE
Esiste una parabola secondo cui una maestra d’elementari si mette a scrivere la tabellina del cinque e ne sbaglia un passaggio volutamente, i bambini ridono e lei insegna loro questo: che le persone tendono ad accantonare o ignorare le cose positive ed alterarsi per le cose negative. Io non voglio farlo, io voglio dire che Immutable è un disco sottotono e sotto certi aspetti fin troppo elementare considerando la band che l’ha firmato; è un bel disco se non si guarda il nome sopra; è un disco in cui solo “God He Sees in Mirrors” e “Armies of the Preposterous” soddisfano le aspettative che col tempo ci siamo fatti con i Meshuggah, ma è un disco che arriva da trent’anni di onorata carriera fra dischi con un coefficiente di complessità rasente l’assoluto e altri che hanno necessitato 10 ore al giorno in sala prove per essere proposti dal vivo al meglio. Alla luce di questo capitolo poco felice non me la sento di biasimare la band, potevano permettersi anche di peggio. (Antonio Sechi)
YARD ACT > THE OVERLOAD
Forse è presto per dirlo ma volendo fare un precoce pronostico questo 2022 verrà ricordato anche per il folgorante album di debutto degli Yard Act. Il quartetto proveniente da Leeds si è fatto notare parecchio grazie al loro sound fresco ed ironico. La loro opera prima si chiama The Overload e da il titolo anche alla prima traccia che incontriamo: proprio grazie a quest’ultima possiamo iniziare a capire meglio le ispirazioni del gruppo che grosso modo vergono verso un post punk / new wave che sposa alla lettera l’ideale musicale di David Byrne ed i suoi Talking Heads. Non è il caso però di parlare di clonazione; gli Yard Act hanno convinto pubblico e critica perché fanno musica complessa che viene assimilata con semplicità e leggerezza. Il loro art rock può sfruttare ritmiche hip hop (“Rich”), conquistarti con pedanti ritornelli (“Payday”) o martellarti con ritmiche di basso asfissianti (“Quarantine The Stick”). Un debutto che può ricordare quello altrettanto importante dei Franz Ferdinand, anche se la band di Leeds, per quanto british, dimostra di sapersi muovere con generi diversi e trasversalmente opposti regalandoci una tracklist fluida e molto divertente. (Matteo Bozzuto)
HANGMAN’S CHAIR > A LONER
A cavallo tra doom, gothic, sludge e post-rock, con uno spiccato senso per le melodie sognanti e liquide, e un mood generale che non sfigurerebbe in qualche disco grunge d’annata: questi sono gli Hangman’s Chair. Abbastanza sconosciuti qui in Italia ma piuttosto popolari oltralpe, i transalpini ci regalano un sesto album assolutamente degno di nota. Ultimi Katatonia e “penultimi” Anathema (quelli di Judgement, A Fine Day to Exit e A Natural Disaster), Chrome Waves, Type 0 Negative e il gothic rock più atmosferico: se terrete bene a mente queste coordinate raggiungerete senza problemi le cattedrali musicali innalzati dai Nostri in A Loner. Un lavoro introspettivo, malinconico, ma non remissivo: si intravedono sprazzi di luce e di speranza, veicolati da una prestazione vocalica maiuscola (rigorosamente in clean). Una piccola perla, probabilmente sconosciuta ai più, che va sicuramente recuperata se amate essere cullati da atmosfere sommesse e pensive. Canzone chiave: “A Thousand Miles Away”. (Federico Botti)
ROLO TOMASSI > WHERE MYTH BECOMES MEMORY
Where Myth Becomes Memory non è né più né meno che un disco dei Rolo Tomassi e questo può significare solo una cosa: che si tratta di un ascolto che penetra e tarma la sensibilità dell’ascoltatore e in maggior percentuale questo è dato dalla splendida voce di Eva Korman che ormai ci ha abituati a sognare. Questo ultimo disco presenta una maggiore raffinatezza rispetto al passato, tutto quanto a partire e soprattutto la batteria risulta sovradimensionato ed estremamente più scandito, ma questo non va assolutamente a intaccare la qualità delle composizioni, al contrario siamo su binari altissimi. La melodia è l’aggressività viaggiano all’unisono con una sinergia disarmante; momenti selvaggi e distruttivi come “Labyrinthine” sono assolutamente perfetti esattamente come quelle visioni paradisiache che ricordano i colori e la delicatezza delle immagini di Picnic At Hanging Rock di “Closer” o “Almost Always”. Dire che è meraviglioso sarebbe riduttivo. (Antonio Sechi)