Terzo album per i Kollaps, creatura nata originariamente in Australia ma da qualche anno stabilitasi in pianta stabile nel cuore dell’Europa, da quando Wade Black (unico superstite della formazione originale) ha scelto di trasferirsi in Svizzera reclutando, strada facendo, Giorgio Salmoiraghi (factotum della Hypershape Records) e Andrea Collaro (già attivo con Fuoco Fatuo e Devoid Of Thought) con cui ha allestito, stabilizzato e consolidato la line-up del suo progetto. Until The Day I Die è il loro secondo album con Cold Spring, il terzo in assoluto, e arriva a distanza di tre anni da Mechanical Christ. Rispetto al passato si nota immediatamente una più ricercata cura per i dettagli, sia nel momento della costruzione dei brani che in fase di incisione; perizia che determina maggior fluidità sia nell’ascolto che nell’assimilazione degli stessi, anche per chi non è solito confrontarsi con questo tipo di sonorità. Il tutto ovviamente al netto di una contestualizzazione che li vede ancora ben radicati in quel filone decisamente ostico del post-industrial, e di tutto quello che gira intorno al genere.
Sicuramente un passo avanti, reso possibile dalla scelta di andare a cercare di ottenere il massimo da ogni luogo in cui si svolgessero le sessioni di registrazione, indipendentemente dal contesto, dalla situazione, dalle difficoltà logistiche. Cercando, in altre parole, di trarre l’anima del posto, rendendola concreta e tangibile. Per provare a dare ancora maggiore vitalità all’album con una varietà di suoni articolata, ma sostanzialmente e doverosamente consona, da un punto di vista concettuale, al progetto originario. Ma non è tutto, sono gli stessi Kollaps infatti a raccontarci come si siano avvalsi di ogni tipo di materiale per rendere ancor più realistico il proprio suono, utilizzando, oltre ai field recording, griglie metalliche, cilindri di cemento, e tutto quello che gli è capitato tra le mani, senza rinunciare a nulla in maniera aprioristica. Strutturalmente siamo alle prese con un assalto continuo che si protrae ininterrotto per tutti e sette i brani dell’album, senza lasciare il tempo per respirare e ragionare, travolgendo tutto e tutti con il suo carico di idiosincrasia, fino all’impronosticabile title-track che ci riporta alla luce, fornendoci un appiglio nel mare in tempesta in cui ci aveva trascinato. Ma è solo un’illusione, la settima conclusiva traccia non fa altro che rimarcare l’asfissiante aggressione sonora chiudendo un album claustrofobico, che, però, rispetto a tanti altri a cui può essere associato, risulta come detto meno ostico e più velocemente assimilabile.
Un disco che suona esattamente come dovrebbe suonare ogni tentativo di contestualizzare lo scenario odierno, a qualunque livello lo si voglia analizzare. Un perfetto esempio di come la nostra mente non riesca a trovare pace nel momento in cui scopre di essere rinchiusa in una società postmoderna che non lascia spazio a nulla tranne che al dolore. Un album che trasuda rassegnazione e sdegno per quello che siamo diventati. Un album delirante, che mostra però una lucidità mentale implacabile nel cogliere gli aspetti più alienanti del quotidiano degenerato cui ci stiamo abituando e renderli concreti. Trentaquattro minuti che suonano come acufeni per le nostre orecchie, nebbia per i nostri occhi e catrame che ci lorda le mani. Sicuramente il loro miglior album fino ad oggi, senza se e senza ma.
(Cold Spring, 2022) 1. Relapse Theatre 2. D-IX
3. I Believe In The Closed Fist
4. Hate Is Forever
5. The Hand Of Death
6. Until The Day I Die
7. Iron Sight Halo