Approcciarsi ad un nuovo album della musicista svedese (oramai trapiantata stabilmente in Norvegia) Karin Park non è mai semplice dato il suo essere dinamica ed imprevedibile. Affascinata da sempre dalla musica elettronica, Karin prosegue a testa alta il suo percorso artistico sulla scia del precedente Church of Imagination combinandolo però con l’esperimento drone compiuto assieme al mastermind Lustmord (il bellissimo e non compreso Alter). Ciò porta al concepimento di questo Private Collection, un disco scheletrico e minimale che raccoglie un lotto di canzoni del passato discografico di Karin (le preferite) ri-registrate per l’occasione donandogli una veste diversa con l’aiuto del marito Kjetil Nernes (l’altrà metà degli Årabrot) alle chitarre, Andrew Liles (Nurse With Wound) ai synth e Benedetta Simeone al violoncello.
Chi scrive non è molto favorevole a questo tipo di release se non in casi eccezionali o a fine carriera però in questo caso la qualità merita attenzione. Karin decide di proporre un lavoro che mantiene sempre l’approccio compositivo di scuola Björk o Zola Jesus ma lo vira in qualcosa di ancora più intimista e solitario riportando alla mente certi esperimenti della compianta Nico. L’unica traccia nuova è l’opener “Traces of Me”, un piccolo regalo per l’ascoltatore affamato di novità nel quale le vocals si elevano fra le stelle in un crescendo psichedelico e stridente dove le tastiere sono pregne di pathos etereo. Le rimanenti tracce, come detto tutte già uscite nei dischi precedenti, hanno pregi e difetti tranne qualche parte più riuscita. Brani come “Glasshouse”, “Give”, “Look What You’ve Done” o “Superworldunknown” sono allo stesso tempo intense quanto molto simili fra loro e difficilmente si scorgono delle palpabili differenze fra una e l’altra. Stesso discorso per le semi ballads asciutte a nome “Blue Roses” e “Shine” che nonostante le pennellate umorali grigiastre tendono troppo alla somiglianza reciproca (sorte simile era capitata alla futura compagna di tour A.A. Williams). Sia chiaro che l’ascolto è decisamente gratificante però lascia un po’ l’amaro in bocca data la caratura dell’artista in questione che riesce a risollevarsi solo in tre pezzi: la notturna ed impalpabile “Opium” trasmette una sussurrata inquietudine nel suo essere oscura e magica, “Bending Albert’s Law” ricorda una certa tristezza interiore alla maniera di Emma Ruth Rundle sfruttando però delle interessanti detonazioni elettroniche visionarie fino alle magnifiche tentazioni danceable/futuristiche di “Tokyo by Night”.
Un disco che necessita assolutamente l’ascolto notturno e silenzioso e che sicuramente darà notevoli emozioni a chi ascolta ma resta un certo rammarico per la quasi totale assenza di novità. Buon ascolto!
(Pelagic Records, 2022)
1. Traces of Me
2. Opium
3. Bending Albert’s Law
4. Tokyo by Night
5. Glasshouse
6. Blue Roses
7. Shine
8. Give
9. Look What You’ve Done
10. Superworldunknown