Due parti di tempesta, una di cadenzata pesantezza, una di malinconici abbandoni; aggiungere dissonanze q.b. e far decantare il tutto senza mescolare, lasciando che gli ingredienti si combinino caleidoscopicamente a propria discrezione. Sorseggiare sulle lunghe distanze, preferibilmente in stanze o abitacoli bui, al massimo in penombra… Se il post-metal fosse un cocktail, ce lo immaginiamo descritto e insegnato più o meno così, a ipotetici alunni che frequentino ipotetiche scuole pronte a formare non meno ipotetici barman pentagrammatici da avviare al mondo delle sette note, sotto la guida di docenti che quegli stessi distillati hanno inventato e fatto apprezzare agli avventori seduti ai metal banconi planetariamente apparecchiati.
Come spesso accade non solo nelle aule scolastiche, il problema è che l’autorevolezza dei modelli può portare a un involontario appiattimento su stilemi che alla lunga corrono il rischio di diventare abusati cliché, a scapito di contributi individuali che non devono mai mancare, pena l’inevitabile sprofondamento nella stucchevole dimensione-cloni ed è questa la grande sfida che hanno scelto di affrontare gli olandesi Gavran, che con questo Indistinct Beacon si rimettono in viaggio dopo il debutto di due anni fa con Still Unavailing. Già in quell’occasione erano emersi prepotentemente gli elementi di oggettiva devozione verso la grande lezione Amenra (con particolare riferimento agli ultimi episodi dell’immortale “saga” Mass) e più di qualche critico aveva storto il naso per un’orbita giudicata troppo pericolosamente a ridosso della stella guida, con annesso rischio di bruciarsi le ali e finire inceneriti dai raggi di un sole così abbagliante. Senza negare un fondo di verità a siffatte preoccupazioni e pur riconoscendo un discreto deficit di originalità, va detto però che in quell’album il trio di Rotterdam aveva fatto tutto maledettamente bene, imbandendo un banchetto che, al di là dell’impeccabilità formale, era stato in grado di dispensare portate accattivanti e di soddisfare commensali anche esigenti. Del resto, tenendoci comunque a debita distanza da un determinismo geografico che musicalmente lascia sempre il tempo che trova, i 150 km che separano Rotterdam da Kortrijk, terra d’elezione della band fondata dal duo van Eeckhout/Vandekerckhove, sono tutto sommato il proverbiale “tiro di schioppo” e confermano che l’area in questione può avanzare una più che fondata e autorevole candidatura a capitale mondiale del post-metal più distopicamente orientato e con più elementi di contatto con il doom. Partendo da questo cuore pulsante, i Gavran sfoderano dosi massicce di visionarietà allucinata ma senza mai perdere il contatto con realtà e materia, che rivendicano sempre la loro centralità strettamente connessa all’umana esperienza e di cui si coglie la trasfigurazione finale, frutto di processi inesorabili di corrosione e alterazione. Il risultato finale è una vena quasi epica che scorre continuamente sottotraccia innervando anche i passaggi dominati dalle colate di fango sludge, che, rispetto ad esempio alla classica declinazione crowbariana del genere, assumono contorni decisamente più sinistri. Con simili premesse, non stupisce la cura particolare che il terzetto riserva alle atmosfere, iniettate di vapori densissimi che avvolgono e rendono quasi indistinguibili le strutture dei brani, ma, soprattutto, colpisce l’impeccabile gestione della tensione che è uno dei marchi di fabbrica di casa Amenra e che i Nostri dimostrano di saper coltivare con quasi pari maestria. Ecco allora le canoniche e attese sfuriate ad alto tasso di muscolarità e gli strappi abrasivi, ma anche le improvvise e prolungate bonacce dove i venti impetuosi smettono di imperversare lasciando il posto a una calma irreale che lenisce le inquietudini accumulate in precedenza e contemporaneamente prepara il terreno per ulteriori turbamenti, che sopraggiungono puntualmente a chiudere la parentesi. È qui, nei delicati meccanismi che regolano e fanno funzionare la macchina degli stop and go emozionali, che si annidano le insidie più pericolose per chi scelga di avventurarsi sui sentieri post- in cui deliri e abbandoni si incontrano generando poesia ed è proprio qui che gli olandesi danno il meglio di sé, distillando una pozione magica con le giuste dosi di veleno e ambrosia. Un capitolo a parte merita la prova del vocalist Jamie Kobić, senza dubbio largamente debitore della lectio magistralis di sua maestà Colin H. van Eeckhout soprattutto nelle parti in scream, ma con un’attitudine più voluttuosamente decadente capace all’occasione di far posare veli malinconici e intimisti che spiegano e documentano sul campo la dichiarata ammirazione della band per i 40 Watt Sun degli esordi. Cinque tracce dal minutaggio sostenuto per poco meno di cinquanta minuti di viaggio complessivo, Indistinct Beacon non fa della riconoscibilità immediata dei singoli episodi la propria bandiera e per apprezzare al meglio l’album è altamente consigliata una fruizione senza soluzione di continuità, che consenta di immergersi in un flusso continuo piuttosto che sezionare l’impianto complessivo per osservarne da vicino gli elementi costitutivi. Sia chiaro, non siamo al cospetto di un concept convenzionalmente inteso, ma lodare l’incedere drammatico che chiude l’opener “Dvorac” dopo le astrazioni del corpo centrale o piuttosto il monolite nero che incombe sulla successiva “Talas” prima di essere letteralmente scarnificato a colpi di cesello con tanto di voce narrante fuori campo o ancora sottolineare il tiro vagamente punkeggiante che attraversa “Dim” o cogliere le devozioni sabbathiane che impreziosiscono in filigrana “Duhovi” e infine celebrare il raffinato retrogusto darkwave della conclusiva “Pesak”, non renderebbe i dovuti meriti a un’opera che si presenta con nuovi spunti e sfumature ad ogni ascolto.
Cinepresa guidata da una regia da Oscar per riprendere e proiettare su uno schermo ideale ansie, angosce e incubi individuali e collettivi, Indistinct Beacon è un album che si candida autorevolmente a colonna sonora di un mondo su cui si addensano nubi sempre più minacciose, che sembrano annunciare tutt’altro che una catarsi. I Gavran assomigliano troppo agli Amenra? Non sradicano le colonne d’Ercole del genere per piantarle in territori inesplorati? Al gusto personale, ovviamente, l’ardua sentenza, noi comunque siamo convinti che il regno post-metal abbia tutti i motivi per rallegrarsi, di questa nuova, luminosa stella che splende all’orizzonte.
(dunk!records, 2022)
1. Dvorac
2. Talas
3. Dim
4. Duhovi
5. Pesak