“Partono tutti incendiari e fieri, ma quando arrivano sono tutti pompieri”… era il 1980 e con queste parole, nel testo di “Ti ti ti ti”, il sempre ispirato e pungente Rino Gaetano fustigava il classico malcostume politico che porta a scavare abissali e imbarazzanti fossati tra le roboanti premesse di inizio carriera e i sempre meno coraggiosi esiti raggiunti sul campo col trascorrere degli anni. Sul terreno non meno scivoloso delle sette note, le stesse accuse sono ciclicamente rivolte alle band che calcano le scene da più tempo, costantemente osservate (e sezionate) al microscopio quasi alla spasmodica ricerca di prove che certifichino una sorta di tradimento artistico rispetto ai propositi e alla resa degli esordi. Forse Opeth, Anathema e Tiamat sono i primi nomi che i sostenitori di siffatte tesi chiameranno sul banco degli imputati come testimoni a carico dell’accusa, ma non è escluso che anche i Katatonia si vedano recapitare una citazione a giudizio, a maggior ragione dopo un album come questo Sky Void of Stars.
Senza volerci ergere a giudici della querelle (e sicuri peraltro che sarà sempre il gusto personale a far pendere la bilancia su uno dei due piatti), è giusto comunque registrare con pari attenzione le prevedibili ma tutt’altro che strumentali obiezioni di chi individua nel cambiamento uno dei motori imprescindibili dell’evoluzione, soprattutto se si tiene conto che dietro un percorso musicale si intrecciano inevitabilmente le trame personali e il vissuto degli artisti coinvolti, per cui è impossibile anche solo ipotizzare una sorta di algida immutabilità impermeabile al trascorrere del tempo. Considerato in quest’ottica, allora, il dodicesimo lavoro in studio del combo di Stoccolma è innanzitutto tutt’altro che un fulmine a ciel sereno e prosegue con coerenza un viaggio intrapreso su coordinate ormai consolidate e distanti non da oggi dalle suggestioni doom/death degli esordi e anche dal gothic che li ha visti tra le bandiere universalmente riconosciute del genere, confermando la svolta prog/alternative delle ultime pubblicazioni. Anche in questo caso, comunque, vale l’invito a non essere troppo tranchant in giudizi e affermazioni e a non perdersi in estenuanti discussioni sui massimi sistemi (vero, le sonorità di Dance of December Souls sono complessivamente un lontanissimo ricordo, ma se gli inserti prog in un brano come “Tomb of Insomnia” fossero stati un’anticipazione degli approdi attuali, quasi che già all’esordio il dna pentagrammatico di Renkse contenesse il codice oggi in primo piano?), concentrando lo sguardo piuttosto sulla rinnovata capacità della band di aggirarsi in territori insidiosi con buona personalità e, soprattutto, senza stancare e generare prematura sazietà. Qui l’esito era effettivamente tutt’altro che scontato, visto il precedente poco incoraggiante di City Burials, album contraddistinto da un insidioso velo di manierismo e da un discreto deficit di ispirazione che l’ha confinato in una dimensione di sia pur dignitoso semi-anonimato, ma Sky Void of Stars ha l’indubbio merito di coniugare semplicità delle forme e coinvolgimento emotivo, per una cifra artistica complessiva elegante e raffinata ma che affonda solide radici nel registro malinconico che è da sempre il marchio di fabbrica Katatonia per antonomasia. Con simili premesse, il risultato è un album che brilla per fruibilità immediata e scorrevolezza dell’ascolto, con l’ovvio controcanto che, per i metal-devoti più ortodossi, si spalancano autostrade da cui alzare inconsolabili grida di dolore per la resa della band alla dittatura della forma-canzone, tra strofe, ritornelli, bridge e strutture poco coraggiosamente articolate. In effetti, su questo aspetto l’obiezione di chi si arrocca fieramente su posizione critiche è tutto sommato fondata (e la relativa, scarsa “individualità” dei singoli episodi, che ne è diretta conseguenza, è in effetti uno dei limiti della tracklist), ma va detto che la classe sconfinata del quintetto impedisce qualsivoglia calo di tensione, disegnando un altopiano qualitativo che surroga la mancanza di vette vertiginose con un’altezza media di tutto rispetto, frutto anche di una cura maniacale per gli arrangiamenti e di una produzione impeccabile, del resto più che prevedibile, trattandosi di una release di casa Napalm Records. Possiamo invece immaginare un consenso pressoché unanime intorno alla prova al microfono di sua maestà Jonas Renkse, ormai perfettamente calato nei panni dell’interprete puro (e chi l’avrebbe mai detto, trent’anni fa, ai tempi del primo, fatale incontro con una “Gateways of Bereavement”… riprovare per credere) con il suo timbro pulito e melodicamente orientato ma che occupa il centro della scena quasi con discrezione, concedendosi anche qualche escursione in territori vagamente decadenti e psichedelici. Undici tracce per poco più di cinquanta minuti di viaggio complessivo, Sky Void of Stars chiarisce fin dall’opener “Austerity” che non necessariamente orecchiabilità e profondità devono militare sui lati opposti di una barricata che le renda inconciliabilmente contrapposte e praticamente ogni episodio conferma il concetto modificando con intelligenza e misura ingredienti e dosaggi. Così, che si tratti del gusto retro di “Colossal Shade”, delle suggestioni electro di “Opaline” o dell’andatura muscolarmente sostenuta di “Birds”, la sensazione è sempre quella di avere a che fare con brani dalle indubbie potenzialità radiofoniche ma mai attaccate dal tarlo della banalità a buon mercato. Un parziale mutamento di rotta si registra con la notturna “Drab Moon”, forse il rimando più immediato e consistente a un capolavoro del calibro di Night Is the New Day e con la successiva “Author”, marchiata a fuoco dall’incursione di sei corde più heavy dell’intero platter, ma per la palma di best of del lotto concorre con le credenziali forse più autorevoli la suggestiva “Impermanence”, distillato aureo delle qualità narrative dei Nostri e impreziosita da un assolo struggente e dalla partecipazione di Joel Ekelöf, vocalist dei conterranei Soen. Per la verità, anche “Sclera” sembra disporre per larghi tratti di carte ragguardevoli per puntare al trono, peccato però che un finale poco coraggioso finisca per dissipare all’improvviso il carico di chiaroscuri fin lì impeccabilmente accumulato. Detto di una “Atrium” che con il suo ritornello accattivante non mancherà di attirarsi le ire funeste dei nemici giurati dell’easy listening, l’album si chiude con le due tracce più elaborate della compagnia, “No Beacon To Illuminate Our Fall” e la bonus track “Absconder”, che azzardano qualche corollario gothic e doom regalando così ulteriori sfumature a una tavolozza di colori alla resa dei conti infinitamente più ricca di quanto un ascolto superficiale possa trasmettere e suggerire.
Un percorso artistico in continua trasformazione, un linguaggio che riesce a far coincidere semplicità ed emozioni, una cura per le forme sempre più accentuata senza mai dimenticare che il cuore pulsante di una proposta è nella forza dell’ispirazione, Sky Void of Stars è un album che riaccende i riflettori su una band che conserva saldamente il suo seggio nel pantheon dei grandi pittori delle malinconiche declinazioni e divagazioni dell’animo umano. Niente paura e nessun dubbio, il sacro fuoco dei Katatonia brilla ancora, luminosissimo.
(Napalm Records, 2023)
1. Austerity
2. Colossal Shade
3. Opaline
4. Birds
5. Drab Moon
6. Author
7. Impermanence
8. Sclera
9. Atrium
10. No Beacon To Illuminate Our Fall
11. Absconder