Elogi, lodi, celebrazioni, panegirici e finanche peana… ma anche fucili costantemente puntati e lenti di ingrandimento in occhiuto servizio permanente. Che si tratti di sport, lavoro, politica o arte in una sua qualsivoglia articolazione, iniziare una carriera con lo status di “predestinati” prevede inevitabilmente un significativo quoziente di difficoltà, con il corollario di una sorta di obbligo di non deludere le aspettative che rischia di pesare come un macigno su storie individuali e collettive. In ambito musicale la trappola scatta soprattutto per le band protagoniste di esordi qualitativamente clamorosi, battezzati da un consenso pressoché unanime e magari capaci anche di scomodare qualche riconosciuto e stagionato guru che si materializzi spendendo parole importanti e impegnative.
È sicuramente questo il caso dei canadesi Hail the Void, comparsi sulle scene tre anni fa con il più che autorevole imprimatur di Rob “Blasko” Nicholson, bassista di Ozzy Osbourne e talent scout per conto della Ripple Music, rimasto folgorato dalla capacità del terzetto di aggirarsi in territori doom/stoner dai sapori antichi senza far ricorso alcuno a quel fastidioso e anacronistico citazionismo che è la pietra tombale di molti cimenti, su siffatte frequenze. Ad aggiungere ulteriori motivi di interesse e consenso, anche il ricorso all’arsenale psych/occult nell’album di esordio si è rivelato tutt’altro che banalmente decorativo, dimostrando che, se è pur vero che il doom del Terzo Millennio ha imboccato strade decisamente diverse, gli augusti sentieri battuti in passato possono ancora regalare panorami mozzafiato (provare la magnificamente lisergica suite “Desert Apparition / Karman Line”, per credere). Dopo una simile prova di forza, non restava che attendere fiduciosi il ritorno in pista della band e l’attesa è abbondantemente ripagata da questo Memento Mori, che supera di slancio la sempre insidiosa prova-sophomore spingendosi se possibile ancora oltre le già ragguardevoli vette raggiunte dal predecessore. Detto subito che, fortunatamente peraltro, “miscela che vince non si cambia”, l’impressione complessiva è che gli Hail the Void abbiano ulteriormente affinato scrittura e linguaggio, maneggiando da fuoriclasse una materia sempre delicata e a rischio sfarinamento, in mani poco ispirate. Con simili premesse, la macchina del tempo in cui siamo invitati ad accomodarci fa il suo lavoro senza strappi e con una naturalezza disarmante, dimostrando che “vintage” e “stucchevole” non sono necessariamente sinonimi. Sul fronte dei dosaggi delle componenti, c’è comunque da registrare un certo arretramento degli spunti psichedelici, a cui fa da fisiologico contraltare il corrispondente incremento dei passaggi a più alto tasso di impatto, ma per chi ha amato i vapori ipnotici del debut restano ancora scorte tutt’altro che trascurabili di spunti ed echi, così come per chi ha apprezzato i richiami ai Windhand di un capolavoro del calibro di Grief’s Infernal Flower. Sull’altro piatto della bilancia, hard rock e blues sgomitano per ritagliarsi un posto al sole ed è in questa atmosfera settantiana che il platter offre il meglio di sé, rispolverando la centralità di sua maestà il Riff come asse portante delle tracce, sorta di calamita che attrae inesorabilmente il lavoro di una sezione ritmica peraltro mai ridotta al ruolo di semplice ancella delle glorie altrui. Come se non bastasse, il gran signore delle sei corde, Kirin Gudmundson, sfodera una prestazione monumentale anche al microfono grazie a un timbro vocale potente e allo stesso tempo graffiante (che nelle parti più abrasive si avvicina alla travolgente resa di Fredrik Berglund, in casa Bombus), mantenendo la barra fissa su un clean da consumato rocker capace di conquistare magneticamente un pubblico dai gusti disparati. Otto tracce (sette, se escludiamo l’intro strumentale “Mind Undone”) per un ascolto complessivo di poco superiore ai quaranta minuti, Memento Mori schiera subito l’artiglieria pesante con la perla cadenzata del lotto, “Writing on the Wall”, distillato aureo delle devozioni sabbathiane del terzetto arricchite da un comparto vocale che sfodera velleità a tratti quasi sinfonico/teatrali. Si replica subito con le spire blueseggianti e oscure della successiva “Goldwater”, in cui rivive l’essenzialità delle strutture che ha fatto la fortuna della cosiddetta seconda ondata doom capitanata da Saint Vitus e Pentagram e si prosegue sulla stessa falsariga con “Talking to the Dead”, accompagnata da un video aperto da una citazione lovecraftiana che preannuncia alla perfezione lo spirito della traccia più inquieta e notturna della compagnia. Siamo già al cospetto di una triade da applausi, ma il meglio deve in realtà ancora arrivare e la terna successiva punta dritto al centro del bersaglio, a cominciare dal crescendo irresistibile di “High and Rising”, su cui si stampa uno degli assoli più cristallini dell’album, per poi cambiare improvvisamente registro con l’inattesa semi-ballad “100 Pills”, in cui Gudmundson azzarda una (ovviamente) riuscita escursione in territorio grunge velando il cammino di ombre malinconiche con l’ombra degli Alice In Chains che ci piace pensare tutt’altro che dispiaciuti, sullo sfondo. E finalmente eccolo, più che debitamente preparato anche come semplice collocazione in palinsesto, il classico brano che potrebbe valere da solo il prezzo del biglietto, “Serpens South”, che si avvia e conclude su ammalianti rotte desert orientaleggianti che custodiscono al proprio interno il gioiello della corona, 24 carati in uscita da una sei corde ispiratissima che trasforma la semplicità in incanto. La colonna sonora per la calata del sipario, a questo punto, è l’unico, parzialissimo rammarico, perché effettivamente la conclusiva “The Void” interrompe un po’ troppo bruscamente il flusso, lasciando che tutto sfumi in un ultimo atto filiforme che non riesce a inchiodare a visione e ascolto mentre passano i titoli di coda.
Il ritorno che tutti ci aspettavamo e speravamo, la conferma che i fuochi d’artificio dell’esordio non erano frutto del caso o di fortunate congiunzioni astrali, Memento Mori è un album che certifica definitivamente la collocazione degli Hail the Void nella ristretta cerchia delle band geneticamente dotate della sacra investitura della predestinazione. La fascia dell’eccellenza è raggiunta, quella dei capolavori è assolutamente a portata di mano.
(Ripple Music, 2023)
1. Mind Undone
2. Writing on the Wall
3. Goldwater
4. Talking to the Dead
5. High and Rising
6. 100 Pills
7. Serpens South
8. The Void