PANOPTICON è la gabbia in cui abbiamo volontariamente scelto di isolarci. Uno spazio che dedichiamo alla musica che più ci piace, e di cui preferiamo parlare senza alcuna fretta. Da, diamo uno sguardo a tutto ciò che abbiamo trascurato nei mesi scorsi e facciamo una cernita delle primizie musicali più particolari, assorbendo e godendo di ogni loro cellula. Tutte le recensioni sono a cura di Antonio Sechi.
OZZY OSBOURNE > PATIENT NUMBER 9
Si tratta essenzialmente della fine indecorosa di un titano del metal. Diffidare di chiunque provi a dire che è un bel disco, non lo è. Può piacere senza dubbio, il gusto non si discute. Ma obbiettivamente questo disco fallisce su tutti i fronti e la masnada di ospiti che contiene serve solo a nascondere il fatto che non ha altro da offrire.
NECRODEATH > SINGIN’ IN THE PAIN
Cosa ci si potrebbe aspettare da una delle più antiche band di metal estremo ancora esistenti? Un altro disco di valore, ecco cosa. Singin’ in the Pain è il tredicesimo full per la band Genovese. Disco che possiamo senza rischio di stima errata considerare un concept album, tutta l’opera si basa sulla narrativa di A Clockwork Orange, il capolavoro per cui Anthony Burgess è noto e credo sia del tutto sensato questo in quanto lo stesso Burgess era un compositore. Per quanto riguarda il disco dei nostri, possiamo dire che si tratta del tipico disco à-la Necrodeath, ossia nulla di nuovo, ma da loro non ci si aspetta nulla di nuovo, da loro vogliamo il solito thrash black metal che tanto sanno fare, con quello spirito pazzoide che abbiamo imparato a conoscere bene. Forse l’unica cosa che è cambiata qua dentro è il drumming, per carità si tratta sempre di Peso, ma lo si percepisce meno, Peso è un batterista inconfondibile, ha sempre una predilezione per i tribalismi, per il suo giocare sugli octoban. Credo abbia voluto provare a deviare un po’ da quel suo stile assolutamente riconoscibile. Ma basta concentrarsi sull’ascolto per capire che è sempre lui. In ogni caso, nonostante la band abbia fatto dei cambiamenti nel suono, è veramente difficile confondersi, in particolare ascoltando brani come “Gang Fight” o “Redemperdition” in cui le reminiscenze di Black As Pitch si sentono perfettamente. Singin In The Pain è un lavoro che mette di buon umore, un furioso racconto in grado di spremer fuori tanta rabbia metallica rimasta sopita, con sonorità che profumano di passato e allo stesso tempo tagliano come rasoi. Un ottimo disco, come ci si aspetterebbe dai Necrodeath.
IN FLAMES > FOREGONE
Sembra… sembra, che la band ormai storica abbia cercato di ripescare alcuni tratti che l’ha contraddistinta in un epoca ormai passata da più di un ventennio, quei cenni al folk scandinavo che diedero spessore a The Jester Race qui ci sono, ma decisamente meno marcati. Allo stesso tempo anche le reminiscenze di Clayman si fanno sentire in Foregone. Questo cosa vuol dire? Che è un disco paraculo? Potrebbe… Che gli In Flames hanno tentato di cambiare talmente tante volte che non ci raccapezzano più nulla e quindi ricorrono al riciclo? Possibile, ma improbabile. È comprensibile che questo disco piaccia, gli In Flames sono pur sempre una di quelle band che da il lá per qualcosa che sarà trend tra i metal kids futuri. Il problema credo nasca dal fatto che la composizione qui ha avuto un forte calo di fantasia ed effettivamente ci sono cosine già sentite in dischi precedenti, il ritornello di “Meet Your Maker” somiglia a molti cose fatte già dalla band. Detto questo, Foregone è un disco che fa respirare aria buona al pubblico che li ha abbandonati all’epoca di A Sense of Purpose grazie a questa nuova ventata di melodeath fatto bene, ma tutto sommato già sentito. Buon disco, senza lode né vergogna.
INSOMNIUM > ANNO 1696
Anno 1696 è un disco che ripaga grandemente l’attesa creatasi dopo l’ottimo Heart Like a Grave. È un disco che si presenta con una grande vastità di range sonoro; non si tratta più solo di melodeath come ci si aspetta dalla band, anche se a posteriori appare ovvio che gli Insomnium ci stessero preparando a questo, comunque ora il salto è notevole perché oltre al death scandinavo di scuola Goteborg e i richiami goth che tanto hanno caratterizzato la proposta della band, ora possiamo sentire quella che potrebbe essere una pesante strizzata d’occhio ai Saor. Questi innesti di folk rendono il tutto molto più intenso e in qualche modo ambientale, tanto che si potrebbe parlare di completezza sonora e compositiva. Inutile dire che questo ormai ha alzato lo standard e le aspettative per lavori futuri della band. Speriamo solo che riescano a replicare dopo cotanta bellezza.
ENSLAVED > HEIMDAL
Sì è vero, partir da marzo dicendo che un dato disco è uno dei migliori dell’anno risulta un po’ pretenzioso, ma è anche un po’ vero. Alla luce di Heimdal degli Enslaved sarà difficile arrivare a tanto. Si tratta di un disco che riprende la durezza che la band aveva leggermente messo da parte negli ultimi dischi. Certamente si tratta di un disco come ce lo si aspetterebbe dalla band norvegese negli ultimi anni, ma forse, questa volta hanno superato persino loro stessi. L’equilibrio tra il fattore viking e quello progressive è incredibilmente perfetto. I pezzi sono scritti in maniera magistrale, procedono naturali, come se fossero vivi e non mi viene in mente nessun motivo per dire che sì è un gran bel disco, ma ha anche qualche difettuccio qua e là… no, nessuno. È perfetto.
IRIS DEMENT > WORKIN’ ON A WORLD
Ma senti: se con Infamous Angel ci si è innamorati di questa grande cantautrice statunitense fai presto ad apprezzare anche Workin’ on a World, un nuovo disco con un carattere vivo e fa un sacco piacere perché il precedente The Trackless Woods era molto amaro, un lavoro malinconico che lasciò con un po’ di tristezza addosso. Si torna invece qui con rinnovato spirito gioviale, con un piano scritto a mo di chitarra e degli ottoni che colorano e riempiono di sfumature gioiose. La sua voce come al solito è percussiva e tagliente. Ma a dispetto dello spirito leggero di questo disco, del carattere romantico che caratterizza sempre la musica di Iris DeMent, forse qui siamo in presenza del disco meno personale, si notano infatti molti dettagli riconducibili al Randy Newman degli anni ’70, più precisamente? Little Criminals. Sì certo, questo è quel genere di nei che penalizzano un disco, ma non per questo liquiderò malamente Workin’ on a World che vuoi o non vuoi è un disco magnetico che sa sollevare il morale di una persona e accompagnare un viaggiatore per grandi avventure. Come si confà al country folk.
OAK > DISINTEGRATE
Disintegrate è colossale. Un brano unico dalla durata monumentale. Si tratta di una di quelle occasioni in cui il doom e il death generano un ibrido terremotante. Tra parti pesanti e dilatate e altre di sferzate e blast dilanianti, Disintegrate rappresenta un’unione sotto il segno della devastazione emotiva e fisica non solo per la durata di un singolo pezzo che può stancare effettivamente ma anche per le soluzioni melodiche sfibranti che si confanno alla matrice doom. Un disco tristemente meraviglioso.
LE CRI DU CAIRE > LE CRI DU CAIRE
Non si tratta di un progetto qualunque. Le Cri Du Caire nasce dalla necessità di raccontare qualcosa: frustrazione, disagio e dissenso, senza assumere il ruolo di voce della rivolta, cosa che in un certo senso è in realtà, questo progetto nasce durante le proteste di Piazza Tahrir al Cairo, ma nulla qui sia che si tratti di musica che di testi prende direzioni prettamente politiche, si tratta di un disco profondamente umano. Ma parlando di musica, questo è un piccolo gioiellino jazz, in cui violoncello, sassofono, tromba e un vortice tremendamente tragico e ipnotico vocale si mescolano per dare forma a qualcosa che non sarebbe così sbagliato associare a quanto fatto fino a ora dai Lovecraft Sextet. L’Arabo si sposa magnificamente con questa musica e in qualche modo la rende enormemente reverenziale soprattutto grazie alla pesante presenza di canto sufi a dare ancor più senso di smarrimento. Disco mistico, assolutamente da recuperare, non per tutti ovviamente.