Per tutti quelli che, come il sottoscritto, hanno venerato per un buon quarto di secolo i gioielli pubblicati in serie dai sempre misteriosamente troppo sottovalutati parigini Dirge (a parere di chi scrive, nome tuttora da empireo del microverso sludge/post d’autore), la notizia dell’avvento sulla scena di una band indiana che aveva osato utilizzare lo stesso moniker, solcando oltretutto rotte sonore abbastanza simili, ha rappresentato al primo impatto una sorta di plastica materializzazione del peccato di hybris, a cui sarebbe dovuta seguire la classica punizione divina per aver violato l’ordine qualitativo costituito. Era il 2018 ma, contrariamente alle previsioni, il quintetto di Mumbai era stato in grado di stupire e strappare applausi da standing ovation grazie al sorprendente full length di esordio, Ah Puch, arsenale caleidoscopico e sterminato di riflessi in arrivo da tutti i metal-quadranti, dagli strappi thrash alle più classiche traiettorie NWOBHM, disposti a raggiera intorno a una solidissima base doom/sludge (citiamo qui solo la conclusiva “Corpse of Cortez” come possibile sintesi dell’intero viaggio).
Da allora sono trascorsi oltre quattro anni e tantissima acqua è passata sotto i ponti, a cominciare dalla definitiva fine corsa dei francesi dopo l’ultima perla Lost Empyrean, ma, fortunatamente, dall’India arriva la conferma che, almeno nella declinazione del subcontinente, il moniker Dirge è vivo e vegeto e, soprattutto, gode di ottima salute. Diciamo subito che, rispetto al debut, questo DIRGE mette in campo alcune importanti novità, modificando in parte l’articolato piano di volo del predecessore a favore di un focus più centrato sui versanti doom, sludge e post-metal dell’ispirazione. Se quindi, complessivamente, siamo al cospetto di un lavoro forse un po’ meno coraggioso e a più ridotto spettro stilistico, sull’altro piatto della bilancia pesa in maniera decisiva la scelta dei Nostri di inerpicarsi su sentieri in cui oscurità e psichedelia lavorano in simbiosi regalando paesaggi ad alto tasso di visionarietà. Con simili premesse, è praticamente inevitabile l’incontro con i numi tutelari del genere e va subito riconosciuta al quintetto una capacità tutt’altro che a buon mercato, su queste frequenze, di riecheggiare Amenra e Cult of Luna sfuggendo alla trappola della derivatività. Ecco allora da un lato il taglio imponente e cinematografico delle architetture care al combo di Umeå e, dall’altro, i passaggi allucinati e claustrofobici che sono il marchio di fabbrica della creatura della coppia d’assi Vandekerckhove/Van Eeckhout, in quel di Kortrijk. Anche sul fronte dei temi trattati, peraltro, la distanza dall’esordio è palpabile, visto che si passa dall’interesse per la cultura precolombiana (Ah Puch è il dio della morte, nel pantheon Maya) a un percorso decisamente più intimo e personale, con l’intento di evocare le emozioni che generano disagio per prenderne coscienza e superarle in una sorta di catarsi, resa musicalmente dalla traccia conclusiva, “HOLLOW”, ma anche visivamente dall’artwork di una cover che riproduce in forma di anello le crisi raccontate nei primi tre brani e lascia al centro un vuoto che è allo stesso tempo via di fuga e portale dimensionale per tornare in sintonia con un universo finalmente dematerializzato. Gli ingredienti selezionati per il viaggio appartengono indubbiamente alla più classica cucina post degli epigoni della scuola neurosisiana e isisiana, ma, a fronte di una prevedibile obiezione sul versante dell’originalità, è impossibile non sottolineare come agli indiani riesca tutto dannatamente bene, a cominciare dagli accurati dosaggi di potenza e impatto con annesse andature cadenzate dal taglio epico, passando per gli strappi abrasivi e le sporcature che conferiscono un tono apocalittico all’insieme, per finire con le aperture atmosferiche in cui filtra un gusto melodico che avvicina la soglia della raffinatezza. A completare il quadro provvede la prova sontuosa dei musicisti coinvolti, con una sezione ritmica magistralmente calibrata in modalità macchina da guerra dalle quattro corde di Harshad Bhagwat e dalle pelli di Aryaman Chatterji e con la coppia di sei corde Ashish Dharkar/Varun Patil libera di spaziare in tutta la tavolozza emozionale, dai flash acidi ai ricami malinconico/struggenti. Un discorso a parte va fatto per la prova al microfono del vocalist Tabish Khidir, forse a un primo ascolto non del tutto convincente, complice uno scream nel complesso opportunamente acuminato ma meno incisivo nei passaggi più solenni e magniloquenti dei brani, ma con il moltiplicarsi dei riavvii del tasto PLAY il comparto vocale finisce per ritagliarsi un primo piano qualitativo di tutto rispetto, inserendosi a meraviglia (o, a volte, annegando artisticamente) nel flusso sonoro distillato dagli strumenti. Quattro tracce dalla durata significativa per un minutaggio complessivo di poco superiore ai quaranta minuti, DIRGE apre subito le ostilità con l’opener “Condemned”, che innalza un monolite oscuro su cui si infrangono onde di fango sludge illuminate dai riflessi sinistri di un cantato delirante, ma prende ancora più corpo con la successiva “Malignant”, che sfodera un tiro quasi liturgico/cerimoniale prima di uno stop centrale dai tratti space da cui si riemerge in vista di un finale con accattivanti ascendenze prog. Avvicinatisi già così alla vetta, il quintetto la raggiunge definitivamente con “GRIEF” (ottimi i refoli drone dell’avvio, impeccabile la scelta di tempo per far esplodere cromaticamente il ritmo, eccellente l’inserto paesaggistico/malinconico, da applausi la chiusura in chiave epica), ma, soprattutto, con la citata, conclusiva “HOLLOW”, magnetico arcobaleno di emozioni che cattura fin dalle prime note e non molla più la presa proiettando sullo schermo alternativamente visioni grandiose, scontri spettacolari tra luce e buio e panorami quasi eterei, fino all’ultimo, liberatorio grido:
“Sacred emptiness
Devoid of emotions
Unburdened of existence
This is my catharsis”
Potente e capace di spalancare insidiose voragini in cui ribollono incubi, tormenti e ossessioni ma allo stesso tempo attraversato da linee poetiche di rara eleganza e raffinatezza, oscuro e a tratti desolato ma con uno sguardo sempre rivolto al cielo, che impedisce che diventi ostaggio della ferrea dittatura della materia, DIRGE è un album che bussa prepotentemente alle porte di tutti i devoti delle sonorità post-metal a spiccate tinte doom. Forse il debut, da solo, si sarebbe potuto considerare il frutto di una fortunata congiunzione astrale, ma qui siamo inequivocabilmente in presenza del secondo indizio che fa proverbialmente una prova: i Dirge sono entrati nei ranghi della nobiltà del genere… e tutt’altro che dalla porta di servizio.
(Immersive Sounds, 2023)
1. CONDEMNED
2. MALIGNANT
3. GRIEF
4. HOLLOW