Più frequentata di un’autostrada nei giorni di esodo estivo, più affollata di una battigia su cui si arenano e arrostiscono le membra sotto la canicola agostana, la scena post- internazionale è diventata col passare degli anni un’arena in cui legioni di moniker sgomitano per ritagliarsi quantomeno uno spicchio di posto al sole, alla ricerca di nuove formule e combinazioni per un genere che, dopo il big bang primigenio nell’ultima decade dello scorso millennio sulla scia della supernova Neurosis, non ha mai smesso di espandere i propri confini artistici. In questo calderone sempre più ribollente e fumante, l’area nordamericana e quella scandinava rappresentano da sempre la punta di diamante dell’intero movimento, ma va dato atto a diverse band inglesi di aver provato ad accorciare le distanze dai modelli e nomi come Bossk e Hundred Year Old Man si sono meritati sul campo i galloni dello status internazionale. A certificare l’ottimo stato di salute del post-metal d’Oltremanica provvede ora un quartetto in arrivo da Liverpool, alle prese con un esordio sulle lunghe distanze che vede finalmente la luce dopo un primo cimento in formato EP datato 2019, The Sacred Dissonance, che aveva già suscitato interesse e attenzione per la capacità della band di disegnare atmosfere intense e monumentali mantenendo la barra dritta tra pesantezze doom e un gusto melodico mai fine a se stesso.
Stiamo parlando dei Mairu e questo SOL CULTUS promette davvero di essere un punto di svolta fondamentale nella carriera dei Nostri, ampliando ulteriormente il menù offerto nel debut e sfoderando contemporaneamente un livello di maturità e consapevolezza dei propri mezzi tutt’altro che scontato, per un progetto tutto sommato ancora a inizio viaggio. Anche stavolta, la scelta cade principalmente su un post-metal ad alto tasso visionario e cinematografico, sotto cui pulsa un motore doom dai ritmi cadenzati che lambiscono a volte la soglia della solennità, ma, rispetto al passato, si moltiplicano (e sono decisamente più convincenti) da un lato le escursioni in territorio sludge e dall’altro gli inserti psichedelici, in un impasto decisamente articolato che però mantiene sempre la fruibilità tra le sue stelle polari. Con simili premesse, non stupisce che tra le frecce più significative nell’arco del platter ci sia la rinuncia quasi totale al cantato (con l’unica, pur non indifferente eccezione dell’opener “Torch Bearer”, dove le ugole sono chiamate in causa, peraltro con parsimonia, per aggiungere alla trama riflessi spettrali e di qualche incursione in “Wild Darkened Eyes”, per rendere la traccia più spigolosamente acuminata), valorizzando piuttosto l’intreccio degli strumenti e innalzando architetture ora ardite, ora minacciose, ora cariche di pathos. Il taglio squisitamente cinematografico dei brani così concepiti porta pressoché inevitabilmente gli inglesi nel raggio d’azione dei maestri Cult of Luna, ma è bene sottolineare come, a differenza delle esplosioni di colore che sono il marchio di fabbrica di casa Persson/Lindberg e soci, nella musica dei Mairu sia la materia a prevalere, con il fango sludge che, pur senza mai tracimare davvero, resta sempre sullo sfondo a catturare parte della luce. Sull’altro piatto della bilancia, attenzione però a non considerare il quartetto prigioniero di uno scafandro o anche solo di un registro monocorde, perché quando decide di alzarsi in volo e di offrirci panoramiche eteree e poeticamente sognanti i risultati sono spettacolari. È il caso, soprattutto, della perla post-rock della compagnia, “Perihelion”, autentico saggio di bravura nella gestione di crescendo e psichedelia nella migliore tradizione Pelican o, in parte, Russian Circles degli esordi (e più di qualcosa dei Rosetta di The Galilean Satellites). Del resto, se anche in un intermezzo più che rapido e apparentemente inoffensivo come “Inter Alia” c’è spazio per confezionare una piccola sorpresa sotto forma di un sax che soffia note notturnamente struggenti, è evidente che la prevedibilità non possa essere un tratto distintivo del lavoro. Ecco allora apparire all’improvviso le mura imponenti di “The Scattering Dust”, cattedrale doom che incombe a lungo sui viandanti iniettando nell’aria vapori sinistri che escludono potenziali percorsi iniziatici dagli esiti consolatori ed ecco anche gli strappi dal vago retrogusto industrial che innervano “Atar”, a conti fatti forse il brano più coraggioso del lotto con il suo incessante peregrinare tra metal sottogeneri. Citazione d’obbligo anche per il pezzo che chiude la tracklist, “Rites of Ember”, aperto da un gioco di chiaroscuri malinconici dal sapore shoegaze su cui lentamente germogliano con impeccabile scelta di tempo sia i rintocchi vagamente tribalistici-neurosisiani della batteria di Ben Davis, sia i ricami della coppia di sei corde Alan Caulton/Ant Hurlock e chiuso da un finale melodicamente orientato che fa calare il sipario lasciando un velo di tristezza in sala.
Un cuore post-metal ad ampio spettro sonoro che spalanca le porte alla contaminazione artistica senza paura di avventurarsi in territori di confine, un’anima eclettica e multiforme che si aggira con pari disinvoltura tra doom, sludge e psichedelia, SOL CULTUS è un album che scrive una pagina importante nel capitolo “band da tenere d’occhio” del libro post- d’Oltremanica e non solo. Se il buongiorno si vede dal mattino, c’è da scommettere che dei Mairu sentiremo ancora parlare.
(Trepanation Recordings, 2023)
1. Torch Bearer
2. Perihelion
3. Inter Alia
4. Wild Darkened Eyes
5. The Scattering Dust
6. Per Alia
7. Atar
8. Rites of Ember