Era doveroso avvicinarsi con cauti passi al nuovo album dei Sigur Rós. È doveroso continuare ad avvicinarsi ad ÁTTA (otto, in islandese) con attenzione e rispetto. Siamo arrivati all’ottavo disco in studio degli islandesi che vede il ritorno in formazione, finalmente, di Kjartan Sveinsson, tastierista, compositore, arrangiatore e molto altro. E questa è forse la notizia principale e più importante che in qualche modo ci prepara all’ascolto di questo album. Sgombriamo subito il campo dalla possibilità di equivoci: i Sigur Rós di Ágætis byrjun, ( ) e Takk… non esistono più. Dalla formazione oramai manca il batterista Orri Páll Dýrason (peraltro sostituito molto egregiamente in sede live dal polistrumentista e collaboratore esterno Ólafur Björn “Óbó” Ólafsson) e sono passati 10 anni da Kveikur, ultimo disco di inediti propriamente detto della formazione nordica (e, per chi scrive, il punto più basso della loro discografia). Progetti, sperimentazioni, raccolte, e singoli ce ne sono stati in questo decennio ma quello che è mancato è appunto un punto fermo che potesse andare a inserirsi nella discografia ufficiale di uno dei più importanti gruppi degli ultimi trent’anni. È valsa la pena attendere così tanto tempo? Sì.
Si riparte in qualche modo dal forse sottovalutato (ma fondamentale per chi scrive) Valtari del 2012, se non addirittura dall’inspiegabile e allo stesso tempo affascinante progetto Route One. Quindi canzoni dilatate, al limite dell’ambient, influenzate dalle progressioni armoniche di Henryk Górecki, compositore caro ai nostri e fondamentale per tanta musica contemporanea (basti pensare, per esempio, a GY!BE o Apparat). Lo standard della recensione vorrebbe ora che si passasse a parlare delle singole canzoni ma questo è un disco che difficilmente si presta a un ascolto distratto, tanto che l’immaginario quasi vorrebbe considerare i dieci pezzi di ÁTTA come capitoli, pezzetti, brani di una singola traccia che necessita, anzi merita per l’appunto, cura e dedizione. Perché un ascolto superficiale potrebbe farci dire che lo schema delle singole canzoni è più o meno lo stesso, con una delicata introduzione, la voce di Jónsi (forse su tonalità più basse che in passato) che ci abbraccia e poi quei crescendo e quelle aperture di cui gli islandesi sono maestri assoluti. E in un certo senso è vero, la struttura si ripete ma dopo decenni di esperienza è anche giusto che la maestria dei grandi artigiani diventi il loro marchio riconoscitivo. In ÁTTA spiccano gli archi della London Contemporary Orchestra, i loop, i filtri, i suoni sequenziati e difficilmente si riconoscono gli strumenti considerati tradizionali per un gruppo rock. Il basso è spesso suonato con l’e-bow, la chitarra con l’ormai fido archetto, la batteria, campionata o meno, compare forse in due, tre tracce ma è l’unica concessione al canone ritmico. Un ascolto superficiale potrebbe farci perdere tutti gli accenti, tutti i sussurri, tutte le minime variazioni che ci permettono di vivere un’esperienza emotiva quasi impareggiabile. Spesso si ha l’impressione di restare sospesi in aria, o a camminare su un filo sottile e mentre guardiamo le nuvole cominciamo a cadere, con la forza di gravità che sembra avere la meglio su quella del sogno. Ma è proprio in quel momento, in cui ci abbandoniamo alla nostra fisicità, una calda esplosione sonora viene ad abbracciarci e sostenere. Ci troviamo quasi commossi, incapaci di esprimere la nostra gratitudine per chi è venuto a salvarci. Permettetemi però di menzionare qualche canzone, come “Skel”, quasi inquieta con gli archi che stanno su tonalità altissime all’inizio ai quali segue un movimento potente e quasi cinematico, avvolgente, rassicurante come il delicato arpeggio di chitarra che fa da sottofondo alle onde varcate dai sintetizzatori, dall’orchestra e dalla voce e, infine, la chiusura con dei suoni che sembrano quelli di una nave che lascia il porto (la memoria non può non andare alla scena del bellissimo documentario Heima). Poi, dopo la delicatissima “Mór”, è la volta di “Andrá”, dove torna il suono pulito di una chitarra a legare i vari passaggi e paesaggi emozionali che anche stavolta la fanno da padrona. Chitarra che starà lì a tessere la rete sui cui ci ritroveremo dopo essere caduti dall’alto. Un semplice e toccante video accompagna questa canzone ma ne è sconsigliata la visione (o anzi, consigliatissima) alle persone sensibili o di lacrima facile. “Fall” è portata avanti dal piano di Sveinsson e nella progressione ritmica può ricordare “Heysátan” da Takk… ed è una piacevolissima sensazione, quasi quella di guardare una foto del passato a cui teniamo e che pensavamo di aver perso. È d’obbligo però ripetere che questo è un album da ascoltare per intero, facendolo scorrere e scivolare, rimanendo concentrati e senza fare altro che non sia chiudere gli occhi e aggiustare le cuffie per essere sicuri di non perdersi niente.
Sono tornati i Sigur Rós e non sono più quelli del passato ma rimangono ancora una delle esperienze più importanti della scena musicale contemporanea. E non resta che dire loro takk.
(Krúnk, BMG, 2023)
1. Glóð
2. Blóðberg
3. Skel
4. Klettur
5. Mór
6. Andrá
7. Gold
8. Ylur
9. Fall
10. 8