Chiunque, per dovere scolastico o puro diletto, abbia avuto in sorte l’incontro con gli autori del teatro latino, si sarà quasi sicuramente imbattuto nella vexata quaestio della “contaminatio”, ovvero di quella tecnica che, prendendo a modello opere della letteratura greca, ne estraeva passaggi e impianti narrativi filtrandoli con contributi personali per creare nuove combinazioni artistiche. Già all’epoca, ovviamente, il dibattito ruotava intorno al rischio di perdere quote significative di originalità, ma, come sempre, la vera differenza non poteva che farla la statura degli autori, al punto che nomi come Plauto e Terenzio hanno agevolmente infranto la barriera del tempo e continuano ancora oggi ad allietare platee, gallerie e loggioni.
Anche sul fronte delle sette note, il mantra dell’originalità a tutti i costi come unico criterio di giudizio per valutare lavori e artisti annovera seguaci convinti e in servizio permanente, pronti a stroncare tutto ciò che non suoni “nuovo” o che si avventuri su sentieri già battuti. Pur riconoscendo la coerenza di siffatto approccio, il rischio è quello di rinunciare a priori all’incontro con band che, senza la pretesa di ergersi a pioneristici capofila di nuovi generi, dimostrano comunque di sapersi aggirare con rara maestria in territori sicuramente già battuti ma da cui si colgono nuove prospettive e potenzialità. È questo sicuramente il caso degli statunitensi Vanishing Kids, ormai avviati al traguardo del quarto di secolo di una carriera che, al netto del manipolo di devoti che ne hanno seguito fedelmente tracce ed evoluzione, non ha goduto finora della luce dei riflettori che pure avrebbe abbondantemente meritato, vista la qualità della proposta. Partiti nei primi lavori da un’accattivante commistione di post-punk, goth rock, shoegaze e suggestioni electro, i Nostri hanno progressivamente irrobustito trame e strutture dei brani, virando convintamente verso lidi doom psichedelicamente orientati secondo i sacri dettami della scuola hard rock settantiana, mantenendo sempre alto il tasso di immediatezza e potabilità dell’insieme. Li avevamo lasciati così, nel 2018, con il magnifico Heavy Dreamer, distillato aureo di riflessi Kyuss, Deep Purple, Pink Floyd, Siouxsie, The Cure immersi in un flusso sonoro magicamente incantato. A cinque anni di distanza da quella raccolta di fuochi d’artificio (citiamo qui per brevità la sola title-track o una “Mockingbird”, consci di fare un torto a tutte le altre perle della compagnia), i Vanishing Kids tornano sulle scene con questo Miracle of Death, dimostrando di aver conservato intatto il tocco pirotecnico sfoderato nel predecessore. Anche stavolta, il grande merito del quartetto è quello di riuscire ad armonizzare caleidoscopicamente spinte creative e sensibilità ad ampio spettro, regalando un ascolto straordinariamente coinvolgente ed emozionante. Così, a fronte di architetture in larga parte debitrici della lezione doom (sia pure con una monoliticità attenuata figlia di refoli shoegaze che spirano senza soluzione di continuità, sullo sfondo), le atmosfere sono prevalentemente languide e quasi voluttuosamente decadenti, anche se è bene non lasciarsi troppo andare ad abbandoni sognanti, perché dietro ogni tornante è in agguato sua maestà il riff, pronto a materializzarsi all’improvviso per scompaginare le carte. A modellare il tutto provvede una line-up d’eccezione, a cominciare dal basso dal sapore augustamente antico di Jerry Sofran, passando per la batteria dell’ultimo arrivato in squadra, Nick Johnson e per il maestro di sei corde Jason Hartman (entrambi accomunati dalla militanza sotto le insegne ahinoi da troppo tempo non più innalzate Jex Thoth), per finire con la carica ipnoticamente magnetica della vocalist Nikki Drohomyreky, con il suo cantato discreto e mai sopra le righe che crea un impasto contemporaneamente oscuro e allo stesso tempo confortevolmente rassicurante (senza contare il suo non meno fondamentale contributo alle tastiere). Sette tracce per un ascolto complessivo di poco superiore ai quaranta minuti, il sipario di Miracle of Death si alza con vista sulle mura apparentemente granitiche dell’opener “Spill the Dark”, ma bastano pochi secondi per assistere alla discesa in campo di un accattivante altopiano melodico in attesa del primo, trascinante assolo del lotto e di un finale in malinconica dissolvenza su cui si posa un delicato velo di archi a cura dell’ospite Gavin Epperson. Solo chi non conosce (e apprezza) l’eclettismo geneticamente inscritto nel dna della band può stupirsi dei repentini cambi di fondale apprestati prima dalle reminiscenze goth rock ottantiane della muscolare “Only You” e poi dal tappeto struggente e lussureggiante che avvolge in spire notturne la successiva “Demon Glove” (citazione e lode d’obbligo, qui, per il gigantesco lavoro dell’organo, dietro cui si distingue nitidamente la sagoma di un redivivo Jon Lord nei panni di lady Drohomyreky, mentre intorno tutto rallenta in una sorta di slow motion cinematografica su cui Hartman disegna ricami di gran classe blues scomodando con successo echi garymooriani). Tocca alla lisergica e muscolare “Midnight Children” riportare indietro le lancette del tempo, in piena epopea seventies, invitando alla stessa tavola Deep Purple e Black Sabbath, seguita quasi per contrappasso dall’eterea “Feral Angel”, che incorpora un breve cammeo acustico sfumando poi verso orizzonti space. La parentesi minimalista del platter si arricchisce ulteriormente grazie alla breve e diafana “For Lauren”, colonna sonora ideale di tramonti autunnali nebbiosi appena rischiarati da una luce incerta, prima che il gran finale in formato suite dell’ottima “Dust” intrecci di nuovo trame doom e orditi psych, con l’impeccabile commiato affidato ancora una volta a un assolo semplicemente da applausi.
Generi musicali che si incontrano abbattendo barriere impenetrabili per chi non sia sorretto dal sacro fuoco dell’ispirazione, scelte artistiche coraggiose figlie di una padronanza tecnica mai fine a se stessa ma costantemente al servizio di quell’emozione che deve sempre tracimare dai solchi, Miracle of Death è un album che conferma le straordinarie qualità di una band che prosegue il suo percorso di ricerca e sperimentazione senza farsi allettare da scelte di comodo o da cassetta. A cinque anni di distanza dall’ultima apparizione, rieccola puntuale, la cometa Vanishing Kids; occhi aperti dunque e telescopi puntati, ne vale assolutamente la pena.
(Aural Music, 2023)
1. Spill the Dark
2. Only You
3. Demon Glove
4. Midnight Child
5. Feral Angel
6. For Lauren
7. Dust