Finalmente qualcosa di nuovo! No, non è esattamente corretto affermare ciò ma, in un panorama come quello della musica estrema dove molto, non tutto, è stato detto ed è difficile re-inventare ed essere moderni e attuali ma allo stesso tempo coerenti, Emergent dei neerlandesi Autarkh è davvero un bel raggio luminoso. Siamo al secondo capitolo del progetto fondato e capitanato da Michel Nienhuis dei Dodecahedron (con David Luiten degli Inferum alla chitarra, Desmond Kuijk al basso e Tijnn Verbruggen a synth, campioni e beat) e il fatto che ognuno dei quattro membri abbia a che fare con la produzione di dischi e suoni o con esperienze variegate con altri gruppi e generi fa sì che la proposta degli Autarkh sia un prisma che regala (anzi, dei “Countless Kaleidoscopes”, dal titolo della penultima traccia) un ricco spettro di versatilità sonora. Tanto per intenderci, e proprio a confutare l’affermazione iniziale, qua chi avverte la mancanza degli Strapping Young Lad di City e dei Fear Factory più melodici troverà ampia soddisfazione. Grande è però l’intelligenza e la scaltrezza dei Nostri, che non vanno alla ricerca di soluzioni difficili e complesse fini a se stesse ma optano invece per un ben ponderato mix di ignoranza, violenza e melodia anche all’interno della singola canzone (si nota la profonda cura dedicata agli arrangiamenti) ed è proprio questo che dà al disco una freschezza e un senso di modernità di cui si sente tanto il bisogno.
Emergent si fa apprezzare di più se preso come un unicum che arriva al suo compimento dopo un ascolto in interezza. Le tracce reggono bene anche prese da sole ma è appunto l’ascolto completo dell’album (facilitato anche dal fatto che tra pezzo e pezzo non ci sia soluzione di continuità) che mostra il posto di rilievo nel panorama estremo che vanno a occupare gli Autarkh nonostante siano solo alla seconda uscita. Ci approcciamo quindi all’ascolto del disco con una breve intro da industrial vecchia scuola che apre “Open Focus”, grazie alla quale comprendiamo che dal precedente lavoro Form in Motion gli Autarkh hanno fatto un grande passo in avanti. Dove il primo album si richiamava ad asperità death metal, Emergent offre una maggiore ricerca della melodia, dell’armonia e di qualche passaggio anche un po’ più accattivante. La voce è spesso cantata e pulita, seppur filtrata e sempre tirata quasi a marcare la oramai definita interazione tra uomo e macchina (forse per compensare una batteria elettronica molto “umana”?). Si passa quindi all’accoppiata di canzoni che aveva anticipato a inizio ottobre l’uscita del disco, ossia “Strife” e “Duhkha”, quasi una versione storta e distorta di alcuni esperimenti trip-hop più oscuri e cupi (e necessariamente va citato anche il massimo guru di una certa elettronica densa e metallica, ossia il Justin Broadrick dei Jesu più muscolari) su cui però trovano sfogo le chitarre e la voce che alterna momenti puliti ma filtrati allo screaming/growling. Il blast beat folle e le urla di Nienhuis in “Trek” ci svegliano dal torpore ma sono interessantissime le aperture quasi eteree (ma con un beat ferreo che ci trattiene fermamente a terra) che interrompono la frenesia della strofa. “Refocus”, altro pezzo lanciato a fine estate, fa da ponte con la precedente vita degli Autarkh e sono più marcate le influenze death che spesso e comunque volentieri lasciano spazio a momenti più riflessivi. “Aperture” è semplicemente un intervallo messo a lanciare i tre pezzi che ci portano alla chiusura dell’album, ossia “Eye Of Horus”, “Countless Kaleidoscopes” e “Ka”. Se la prima delle tre è forse la traccia più debole del disco, con i suoi strani e sghembi riferimenti pseudo-jazz e fusion, con la ritmica dispari di “Countless Kaleidoscopes” si torna in ambienti più metallici ma con solide basi di sperimentazione e voglia di “andare un po’ più in là” (la voce nella strofa ricorda Mike Patton quando ancora era nei Faith No More). Gli Autarkh vogliono però avere fiducia nel futuro e nel progresso e lo fanno con “Ka”, quasi un inno alla gioia dell’esistenza e alla quintessenza dell’energia vitale, indipedentemente se questa sia basata sul carbonio o sul silicio. I neerlandesi celebrano quindi il loro e forse nostro viaggio nella luce con la canzone più leggera e semplice (e migliore, nonostante sia forse un po’ breve ) del lotto, dimostrando che spesso, alla base di leggerezza e semplicità, c’è una grande consapevolezza dei propri mezzi e coscienza di ciò che si vuole proporre.
Un bell’album, quindi, il secondo degli Autarkh, che si definiscono “Contemporary metal adventurers” e lo fanno con senso. Emergent sembra riconnettersi con un modo di fare musica che artisti come Devin Townsend e altri hanno forse abbandonato troppo presto, preferendo scegliere strade complesse e in qualche caso astruse (senza per questo volerne negare l’assoluto valore e l’importanza, intendiamoci). Michel Nienhuis e i suoi optano per soluzioni sì studiate ma che strizzano l’occhio a sviluppi futuri che potrebbero aprire loro anche degli spazi commerciali degni d’interesse. Chissà, loro stessi sembrano avere molta fiducia nel futuro e speriamo che vengano a instillare un po’ della loro speranza anche in noi con le prossime uscite.
(Season of Mist, 2023)
1. Open Focus
2. Strife
3. Duhkha
4. Trek
5. Refocus
6. Aperture
7. Eye Of Horus
8. Countless Kaleidoscopes
9 Ka