Non molto tempo fa discutevo con l’amico Naresh di Dio Drone su come le nostre esistenze siano cambiate nel momento in cui abbiamo deciso di mettere in piedi le nostre rispettive etichette. Attenzione però: le cose però non stanno come forse state pensando. Il cambiamento c’è stato, ma in negativo. Nel momento in cui abbiamo messo in moto il tutto, le tenebre dietro cui ci eravamo schermati sono scomparse, sbaragliate da un sole abbacinante che ha sciolto sotto i suoi venefici raggi l’architettura dei nostri universi relazionali. Da lì in poi il diluvio, inarrestabile. Il numero delle persone con cui pensavamo di aver costruito quel “qualcosa” che ci faceva sperare in una ripresa del genere umano, da tempo indirizzato verso la deriva, è drasticamente scemato, in modo tanto copioso quanto, almeno inizialmente, inaspettato. Il tutto, ovviamente, dopo ripetuti assalti alle mura del castello che, non senza fatica, avevamo eretto e che continuiamo a modellare, e rinforzare, con nuovi progetti sonori. In molti si sono sentiti in dovere di salire a corte a chiedere udienza, ringalluzziti dalla speranza (per noi vana, per loro doverosa e giusta) di chiedere la pubblicazione del loro ennesimo, e, mi sento di aggiungere, inutile, disco.
Prima doverosa precisazione: il plurale fino a questo momento usato non sottintende affatto una comunità di intenti, io parlo solo e soltanto per me, e per Toten Schwan.
Che cosa abbiamo imparato da tutto questo? Sicuramente, in prima battuta, l’inconsistenza dei rapporti, figli illegittimi sì un clientelismo pateticamente mascherato da “amicizia”, tenuto più o meno caparbiamente e meschinamente nascosto, ma non solo. Mi piace anche sottolineare come aumenti costantemente la velocità con cui siamo soliti fuggire da tutto quello che non ci serve (più), rivolgendo altrove la nostra sete di gloria. Come sterminate da un’improvvisa e catastrofica carestia sono tristemente andate a morire tutte quelle dinamiche che, sino al momento del “fatal rifiuto”, parevano indissolubili, e in grado di sopportare eventi di portata bellica con grande naturalezza. Continuo a ripeterlo da tempo, senza stancarmi. Siamo parte di un mondo inesistente che ruota intorno alla Rete, e che si nutre della vacuità e della superficialità dei rapporti che in esso si creano. L’essere umano, in quanto “predatore”, è da sempre portato a trarre il massimo da ogni situazione, meglio ancora se non deve dare nulla in cambio. Vale per tutti i campi, compreso quello musicale, in cui gli “artisti” (o presunti tali) scendono al livello degli ultimi, degli infami, dei reietti, dei diseredati, scordandosi del ruolo elevato di cui si sentivano investiti. Non fraintendetemi però. Non mi sto lamentando per esser stato lasciato solo, anzi, è l’esatto contrario. Non voglio in alcun modo piangere le perdite, ma glorificare tutto questo. Gli allontanamenti (più o meno voluti, più o meno forzati, più o meno spontanei) hanno contribuito a farmi capire quanto fosse davvero necessario provvedere al taglio di questi rami secchi.
Non ci sono dubbi che quella dell’etichetta sia un’esperienza appagante, soprattutto per il suo continuo mutamento, e per l’impossibilità di stabilire aprioristicamente che cosa accadrà nel futuro. Si entra in contatto con realtà altrimenti impensabili da scoprire, ci si confronta con persone provenienti da altre esperienze di vita. Se tutto finisse qui, appare chiaro e innegabile che si tratta di un’esperienza realmente gratificante, che riesce a unire la dimensione artistica alla conoscenza umana. È altrettanto chiaro, però, che un’etichetta non è e non potrà essere una gallina dalle uova d’oro: tutto quello che si riesce a creare è solo una soddisfazione personale, la sublimazione di un’esistenza consacrata alla musica e a tutto quello che la circonda. È bellissimo costruire un album insieme a un gruppo, vederlo crescere, curarlo nei minimi dettagli e poi, finalmente, toccarlo con mano una volta stampato. Se però cercate qualcosa che esuli da tutto questo, rivolgetevi altrove, impiegate diversamente il vostro tempo libero. All’orizzonte si annidano solo tenebre e nubi. A meno che, non trovando altri modi per levarvi dal belino tutti quelli che non sopportate, non decidiate machiavellicamente di usare l’etichetta per fare tabula rasa, e portare a termine il vostro piano. Allora sì, in questo caso, mettetevi subito al lavoro e aprite immediatamente una pagina su Bandcamp, il resto verrà di conseguenza. In nome di una presunta lesa maestà, che muove i fili di questo che, a conti fatti, possiamo anche vedere come un inaccettabile ricatto. Quello che lascia perplessi è anche la velocità con cui si mette tutto da parte, una volta capito che non c’è più nettare da succhiare, dedicandosi alla seduzione del nuovo miglior amico, ovviamente intestatario di un’etichetta. Basta un nulla, un giudizio negativo, o anche solo distante da quello auspicato, e tutto si spegne, in un click. Si scappa, meglio se con il favore delle tenebre, e senza il coraggio di motivare la scelta. In altre parole, se non servi non esisti, è inutile girarci intorno, è tutto qui, semplice e triste, ma vero.
Ma non c’è solo questo aspetto. Un altro fattore di cui tenere conto è quello che riguarda la qualità delle proposte. Siamo davvero sicuri che in giro ci siano davvero così tanti dischi che meritano attenzione e che debbano, conseguentemente, essere prodotti? Non possiamo fermarci un attimo e riflettere sull’esorbitante numero di dischi che escono quasi quotidianamente saturando l’etere, e creando un surplus (non richiesto) di offerta? Non è che alla fine rischiamo di abbassare la qualità delle proposte, pubblicando veramente tutto quello che viene registrato? È sicuramente giustissimo che chiunque abbia la possibilità di veder realizzato il proprio sogno “artistico”, ma è altrettanto vero che prima o poi si dovrà mettere un limite a tutto questo costante proliferare di album. E poi, davvero tutto quello che si registra deve per forza essere stampato più velocemente possibile? Non possiamo lasciarlo un attimo da parte, e riguardarlo, con occhio critico, a distanza di tempo, cercando di capire se davvero possa essere qualcosa di più che l’ennesimo autoerotismo? Ma andiamo ancora avanti e spostiamo il ragionamento su un altro piano. Lasciando da parte la qualità della proposte, ma chi cazzo ha il tempo di ascoltarle tutte? Non solo, chi riesce a stare al passo con le uscite, e conseguentemente, pensare di ascoltarle, farsi un’idea e in estrema ratio comprarne una copia? E qui si innesta quella che credo possa essere una provocazione, ma solo fino a un certo punto. Compriamo i dischi dopo averli ascoltati o perché “dobbiamo”? Mi spiego meglio. Esce il disco di “Stocazzo”. Lo devo prendere per forza. Fa parte del mio giro, se non glielo prendo poi lui non prenderà il mio. Non mi pongo nemmeno il problema che possa non piacermi. Tanto non lo ascolterò, farò un post social dove lo esalto come se non ci fosse un domani, in modo da mantenere il mio status all’interno di questo circolo vizioso dove ognuno ascolta e considera solo se stesso. Anche perché non è ammissibile parlare male del disco di un amico/conoscente/membro della mia stessa setta.
Alla fine dei giochi, la scelta è solo e soltanto vostra. Se avete voglia di sfidare la sorte, mossi dalla necessità di voler in qualche modo dare una scossa alle vostre vite, quale occasione migliore di questa? Se invece, tenete al castello di carte che cercate di conservare, a suon di leccate di culo – spesso unidirezionali o tutt’al più svogliatamente corrisposte – allora lasciate perdere ogni velleità. Non fa per voi, rischierete di veder compromesse le vostre (inutili) relazioni “sociali”. Fermatevi immediatamente. Nella (crediamo) remota ipotesi in cui infine siate allineati con noi, e quindi portati a battervene il belino di tutti coloro che vi stanno intorno, consapevoli che, in un luogo che non esiste, come il dorato e meraviglioso mondo dei social network, l’unica verità è che tutto è finto, che aspettate? Registratevi su Bandcamp. Non c’è tempo da perdere.