“La sacralità vista da una prospettiva differente e magnifica. Linee di basso che hanno fatto scuola e una batteria assolutamente fuori scala fanno di questo disco il punto di non ritorno di tutto quello che è di origine stoner e doom. Una sola traccia che vale una carriera: “State of Non-Return”. Difficile fare meglio.”. Così, una decina di anni fa, il nostro Diego Ruggeri sintetizzava sulle pagine di Grind on the Road il senso di un album che ha assunto subito i tratti dell’imprescindibilità per tutti gli amanti delle declinazioni psichedelico/liturgiche di due dei generi dalle radici più nobili e antiche del metal universo. L’album in questione è Advaitic Songs (vertice artistico della carriera di Al Cisneros e Emil Amos sotto le insegne di quegli Om che a inizio millennio hanno raccolto l’eredità degli Sleep in momentanea quiete dopo il rilascio di sua maestà Dopesmoker) e, evidentemente, le polveri creative frutto dell’esplosione di una siffatta supernova sono ancora in grado di agevolare la nascita di stelle di prima grandezza, a chilometri e anni di distanza dall’evento.
Così, tra echi, richiami e devozioni evidenti fin dalla scelta del moniker, un terzetto tricolore mette in acqua il vascello State Of Non Return, correndo il rischio di inerpicarsi su sentieri resi impervi dall’ombra minacciosa del modello ma, lo anticipiamo in premessa, raccogliendo più che meritatamente, con questo White Ink, i frutti di un azzardo assolutamente nelle corde di una collaborazione tra musicisti peraltro tutt’altro che improvvisati o alle prime armi. A comporre la squadra, in libera uscita dalle rispettive case madri, concorrono infatti alle sei corde e al microfono Mauro Chiulli (componente di quegli Sleepwait che con il magnifico Sagittarius A* si sono autorevolmente candidati al ruolo di fedeli discepoli tricolori del verbo Tool e A Perfect Circle), alla batteria Tony Arrabito (membro dei Black Dio, interessantissimo combo con vista su paesaggi drone) e al basso lo stesso Diego Ruggeri citato in premessa, titolare delle quattro corde nei Ropes Inside A Hole, che un anno fa hanno lasciato tracce importanti sulla scena post-rock/metal con l’ottimo A Man And His Nature. Come anticipato, l’orizzonte pentagrammatico del terzetto si allarga a partire dalla grande lezione doom dei classici, con particolare riferimento alla cosiddetta “seconda ondata”, che annovera i Saint Vitus tra le stelle polari, capaci di declinare la lezione sabbathiana mantenendone l’essenzialità formale ma intensificando contemporaneamente la componente lisergica. Ecco allora che, dopo aver innalzato strutture monoliticamente imponenti, i Nostri fanno posare sulla superficie una patina di arroventate sabbie stoner, che rendono incerti i contorni ed esaltano una sensazione di viaggio straniante che riprende più di un tratto dell’immortale lezione settantiana. Su queste frequenze, è praticamente impossibile sfuggire al rischio di incappare in anacronistiche riproposizioni di stilemi sonori figli di altre epoche e altri gusti, ma gli State Of Non Return si muovono sempre con un innato senso della misura e dell’equilibrio, evitando la trappola del vintage d’accatto e riuscendo a non suonare mai in modalità “cloni seriali”. Su questo fronte, tra le armi indubbiamente vincenti vanno annoverate anche le tutt’altro che marginali o trascurabili iniezioni di fanghi sludge, che, sia pur declinate in chiave prevalentemente atmosferica e con pochissime concessioni alla radice core del genere, contribuiscono a una resa complessiva non di rado vicina a esiti cinematografici, in cui il post-metal spesso e volentieri si impadronisce del centro della scena. E che il flusso visionario/narrativo sia il vero cuore pulsante del platter è confermato dalla scelta di confinare il comparto vocale in una sorta di limbo, sempre pronto a uscire dall’ombra per aggiungere qualche sfumatura alla tavolozza dei colori ma mai protagonista di incursioni con l’obiettivo di strappare trame e fondali. Con simili premesse, tenuto anche conto della chilometricità delle singole tracce in termini di minutaggio, la sensazione immediata è quella di trovarci al cospetto di un viaggio potenzialmente impegnativo, ma tra i grandi meriti del terzetto c’è quello di coltivare una propensione melodica in grado di agevolare comunque la fruibilità anche per i più refrattari ai classici percorsi della psichedelia d’autore, evitando pericolose derive cerebralmente autoreferenziali. Che si opti per un ascolto a luci spente nella solitudine di una stanza vista-cielo senza stelle o come colonna sonora ideale per un abitacolo dedito a peregrinazioni notturne in non-luoghi, bastano pochi secondi all’opener “Catharsis” per immergere l’ignaro viandante in un’atmosfera strana e irreale, in cui solennità e rarefazioni quasi contemplative si inseguono creando un “effetto cerimonia” che adombra un possibile percorso iniziatico a cui abbandonarsi perdendo il contatto con la realtà. L’alternanza pieni/vuoti (o forse, meglio ancora, in piedi/seduti, proseguendo nella metafora liturgica) si conferma incrementando ulteriormente il tasso di maestosità dell’insieme nella successiva “Vertigo”, su cui Chiulli assesta colpi chirurgici in scream mentre Arrabito mette le pelli al servizio delle parti corali e Ruggeri intreccia ricami ipnotici con le quattro corde. A questo punto la componente cinematografico/visionaria si prende il proscenio grazie alla title-track, che, a lungo iniettata di magnetici vapori space, riserva per il finale le dosi di acidità più significative dell’intero lavoro, sfruttando un cantato nella circostanza claustrofobicamente abrasivo. A questo punto ci ritroviamo ai piedi della montagna più difficile da scalare (ma anche quella in grado di regalare le maggiori soddisfazioni, in vetta…), perché i quindici minuti della conclusiva “Pendulum” pretendono una dedizione assoluta all’ascolto, per coglierne lo sterminato arsenale di perle accatastate tutt’altro che a caso. Dalla modalità trasmissione radio dell’avvio ai ritmi cadenzati che innalzano una cattedrale doom, dalla chitarra impegnata in un assolo quasi malinconicamente struggente a un inserto di chiara impronta Tool che sorprende (ed esalta) a metà percorso aprendo i registri della titanicità e dell’epica, in vista di un finale che accumula tensione in una minacciosa marea drone, ci sono tutti i segnali per alzarsi in platea… e far scattare l’applauso.
Solidissime radici che affondano in terreni dove solo chi è sorretto dal sacro fuoco dell’ispirazione riesce a trovare anfratti ancora fertili, macchina del tempo attivata senza intenti ruffiani e con piloti in grado di reggerne saldamente la barra grazie a un carico di personalità fuori dal comune, White Ink salta a piè pari il rischio opera prima e si colloca direttamente nell’empireo degli album di cui ricordarsi in sede di consuntivi di fine anno. L’esordio è davvero sontuoso, non resta che augurarsi che sia solo il primo di una lunga serie di capitoli da scrivere nel libro degli State Of Non Return.
(Trepanation Recordings, 2024)
1. Catharsis
2. Vertigo
3. White Ink
4. Pendulum
8.5