Gli Oh Hiroshima aggiungono un nuovo capitolo alla loro carriera discografica con questo All Things Shining, quinto album e primo ad uscire per Pelagic Records, a due anni dall’ottimo Myriad, pubblicato con la Napalm Records (come il precedente Oscillation del 2019). Si tratta di un titolo molto evocativo, che lascerebbe presupporre una luminosità nelle atmosfere e nelle sonorità. Forse gli Oh Hiroshima hanno abbandonato la malinconia insita nel loro sound? Non esattamente: questo lavoro trae la sua principale ispirazione da una tematica abbastanza universale, che risuonerà particolarmente cara a chi ha superato i trent’anni (come chi scrive): la natura duplice dell’invecchiamento. Nel senso che l’esperienza accumulata nel corso degli anni porta ad un’osservazione del mondo più pragmatica e calcolata, in contrasto con la spontaneità dell’infanzia. Il disco esplora questa dualità e cerca di confermare che nonostante le avversità della vita, c’è ancora una luce autentica da preservare: per raggiungerla e mantenerla viva è fondamentale la nostra percezione delle cose. L’album quindi è una sorta di esplorazione sonora che invita a fare pace con il passare del tempo, preservando la luminosità innocente della giovinezza; questa ricerca di luce nelle fasi più confuse della crescita è rappresentata benissimo nella copertina, che continua la tradizione di associare ai dischi degli svedesi illustrazioni astratte molto belle e cariche di significato. Le sfumature blu e rosse di Myriad lasciano spazio ad un’oscurità fumosa ai lati e a un fulgido centro luminoso; il tutto può essere interpretato come un simbolo del passaggio del tempo: le nuvole vorticose e il fumo potrebbero rappresentare le esperienze accumulate nella vita, mentre l’illuminazione intensa, secondo me, sta a simboleggiare il bagliore della giovinezza che cerchiamo di preservare tra le vicissitudini delle nostre esistenze terrene.
Va detto subito che, dal punto di vista musicale, All Things Shining non porta stravolgimenti radicali. Il sound distintivo del gruppo svedese, che ha raggiunto il suo apice con In Silence We Yearn nel 2015, è presente in ogni minuto dei 40 del disco: parliamo di un post-rock abbastanza atipico, dove la voce gioca un ruolo quasi costante e le strutture guardano spesso alla forma canzone tipica di brani rock più convenzionali. Il punto di forza degli Oh Hiroshima sono sempre state le contaminazioni: sezioni dilatate ed evanescenti tanto care allo shoegaze quanto all’alternative rock hanno da sempre soddisfatto anche i palati degli ascoltatori più esigenti. Queste influenze si arricchiscono ora di accenni di krautrock, soprattutto nelle fasi più intense e oscure, in cui era già presente la tensione riscontrabile in una attitudine quasi post-punk. Le piccole introduzioni che hanno caratterizzato gli ultimi lavori persistono dunque, accompagnate da una notevole presenza di fiati, archi (verosimilmente sintetici) e sintetizzatori. L’elemento che ho trovato più intrigante in questo nuovo album sono le sezioni più ipnotiche che emergono di tanto in tanto, in cui il flusso della canzone sembra arrestarsi, per poi gradualmente evolversi, costruendo così una tensione emotiva tipica dei classici crescendo del post-rock ma raggiunta in modi diversi e non convenzionali. Paradossalmente, attraverso una apparente staticità, che nasconde in realtà un’intensità latente che cresce in modo sinuoso e stratificato. C’è una sezione bellissima di questo tipo su “Secret Youth”, il secondo singolo pubblicato, in cui ad una struttura tradizionale verso-ritornello si aggiunge un bel basso saturo e fraseggi di elettrica che accompagnano il cantato e che nei ritornelli si evolvono, elevandosi e attorcigliandosi in fughe luminose. Anche “Holiness Movement” presenta una parte simile, in cui la purezza di una nota cristallina ripetuta a mo’ di mantra contrasta con la ruvidezza massiccia del basso distorto e con un bel fraseggio chitarristico in delay. Sono le parti che più hanno colto la mia attenzione nei primi ascolti, e anche nei successivi: momenti ipnotici in cui la musica ha avuto un potere pressoché totale su di me e sulla mia percezione del mondo circostante. Il disco è comunque molto bilanciato e rispettoso della natura duplice che caratterizza il concept: se da un lato troviamo l’urgenza impellente di brani come “Wild Iris”, che affronta la frustrazione della mediocrità circostante con un ritmo incalzante e un break incisivo, dall’altro ci sono tracce più calme in cui il suono ha lo spazio per respirare ed aprirsi maggiormente a soluzioni più dilatate. “Rite of Passage”, posizionata esattamente a metà dell’album, incarna questo aspetto in modo notevole: è un brano più disteso e calmo, molto nostalgico, e segna una sorta di transizione in termine di umore. Quando entra la voce si avverte una profonda malinconia nell’aria, che rimanda alle atmosfere di In Silence We Yearn. Il riff di chitarra elettrica nel bridge e la temporanea sparizione della batteria, che tornerà con ancora più veemenza in seguito, è tra i più espressivi ed evocativi dell’album. Qui sembra risiedere il vero “rito di passaggio” del titolo: “It’s getting dark now, the trees don’t grow there”, decanta la voce, con un’ermetica rassegnazione. Questa traccia potrebbe essere definita come il momento della consapevolezza, in cui il suono sancisce una presa di coscienza profonda; è un brano che mi ha trasmesso molto, soprattutto grazie ai riff ariosi di chitarra elettrica che ritornano in modo rassicurante nel finale, dipingendo visioni di consapevolezza importanti, dotate di un fascino quasi romantico. Uno degli episodi migliori per chi scrive è “Swans In A Field”, un brano dall’imponente batteria e dal sound trionfale e drammatico, soprattutto nella prima parte completamente strumentale; l’ingresso della voce a metà funge da spartiacque, mentre rimane soltanto una progressione di accordi ripetuta sull’elettrica ad accompagnare il cantato. Questa pausa dal sapore indie-rock apre la strada a una sezione davvero suggestiva, dove archi gioiosi si uniscono alla sezione ritmica e a un bel giro di basso, rendendo l’atmosfera più leggera, luminosa e intrigante. La conclusione del brano è epica e cinematografica, per quello che è uno dei climax più gratificanti di questo All Things Shining; un altro momento dalla simile caratura è il finale di “Memorabilia”, la poderosa traccia finale che chiude il lavoro con una discreta solennità.
Di questo disco ho particolarmente apprezzato il suono del basso, spesso distorto e sempre imponente nella sua presenza, così come i fraseggi di chitarra di Jakob Hemström, che si rivelano sempre efficaci, espressivi e affascinanti, anche quando le parti non sono particolarmente complesse. C’è sempre un forte fattore emotivo che li caratterizza, contribuendo ad arricchire ogni brano di sfumature che arrivano molto, soprattutto grazie a tutta quella serie di elementi che impreziosiscono le texture: tastiere e sintetizzatori accarezzano spesso i riverberi per costruire brani dall’andatura deliziosamente cinematografica, e qui gli svedesi riescono sempre a costruire ottimi passaggi. In generale, l’album è di buon livello, anche se alcuni pezzi avrebbero potuto beneficiare di qualche variazione in più. Ad esempio, “Leave Us Behind” è un brano certamente gradevole, ma dall’andamento mid-tempo che impiega troppo tempo per diventare più robusto e interessante. Per la maggior parte della sua durata risulta troppo simile ad altri pezzi presenti nella scaletta di un disco che rimane ancorato ad una certa idea di sonorità e ad essa ritorna spesso, anche quando vorrebbe evaderne. Anche “Deluge” soffre dello stesso difetto: è un brano particolare in cui il minimalismo che caratterizza l’incedere, sporcato da sezioni orchestrali e da un senso di costante tensione, non sfocia in nulla di memorabile, risultando abbastanza fine a se stesso. Nonostante qualche episodio non perfettamente a fuoco, gli Oh Hiroshima ci hanno abituato a lavori capaci di creare sfumature sonore che si sposano perfettamente a momenti di introspezione e riflessione, e All Things Shining in questo non fa di certo eccezione; purtroppo non posso dire la stessa cosa per ciò che riguarda la produzione. Personalmente avrei gradito un lavoro più audace in tal senso, per permettere maggiormente al suono di brillare. La scelta di mantenere un sound chiuso e troppo scuro potrebbe essere stata intenzionale, ma in alcuni brani chiave avrei preferito una maggiore apertura sonora, in linea con il titolo dell’album. Ci troviamo quindi dinanzi ad un lavoro solido e gradevole, ma non imprescindibile; con un po’ più di audacia, avremmo potuto parlare di questo disco in termini molto più entusiastici, pur trattandosi oggettivamente di un buon lavoro, che non avrà di certo problemi a farsi ricordare a lungo dagli appassionati della band. Volendo tracciare un parallelismo con il concept che ha ispirato questo All Things Shining, potremmo dire che le parti “adulte”, e quindi più asettiche e ragionate, superano purtroppo le parti brillanti, genuine e audaci.
(Pelagic Records, 2024)
1. Wild Iris
2. Holiness Movement
3. Swans In A Field
4. Secret Youth
5. Rite of Passage
6. Deluge
7. Leave Us Behind
8. Memorabilia