Estate… stagione di luci, colori, frastuoni e moti perpetui, mentre Natura e umani sembrano impegnati in una quotidiana fiera della vanità che annovera tra le attrazioni principali il tendone “colpo d’occhio”, lo stand “fosforescenza a tutti i costi”, la bancarella “mi agito ergo sum”, il tutto sotto riflettori tenuti sempre accesi da un sole che abbandona a fatica e controvoglia la linea dell’orizzonte. Mentre la grande maggioranza non fatica ad entrare in sintonia con crismi e riti della bella stagione, un drappello di fieri renitenti alla leva conta i giorni che mancano al ritorno di penombre e toni sfumati, sicuramente più consoni a paesaggi interiori segnati da inquietudini e malinconici abbandoni.
Ed è proprio a questo popolo degli equinozi, con una sorta di cadeau fuori stagione e per questo probabilmente ancora più apprezzato, che si rivolge l’esordio dei capitolini Still Wave, che approdano alle lunghe distanze di un full-length dopo un percorso di progressivo completamento e affinamento della line-up a partire dal nucleo originario composto da Luca Fois ed Eliana Marino (con quest’ultima sostituita nel 2023 da Tomas Aurizzi, già membro dei gloriosi Aborym). Come annunciato nelle note che accompagnano l’album, il piano di volo prevede una combinazione di generi e suggestioni diverse con un’esortazione chiara e illuminante, “Canta. Tieni con te il tuo cuore. E sorridi mentre precipiti…” (ebbene sì, chi ha detto che anche i promo sheet non possano dispensare pillole di poesia?) e il risultato, lo diciamo in premessa, rispecchia pienamente quanto dichiarato, regalandoci un gioiello di rara eleganza e raffinatezza… e pari profondità. Per sommi capi, la traiettoria artistica del quintetto è riconducibile a prospettive atmospheric doom e post-rock/-metal, con significative punteggiature shoegaze e più di qualche concessione a suggestioni black, ma mai come in questo caso è bene non affezionarsi a catalogazioni troppo rigide, che rischiano di ingabbiare una proposta che, al contrario, ha tra i suoi punti di forza una capacità innata di muoversi nelle terre di mezzo tra i generi, più che prendere stabile dimora nelle loro capitali. L’altro grande errore da non commettere, visto che stiamo comunque parlando di territori pentagrammatici già più che discretamente battuti e frequentati, è quello di avventurarsi tra i solchi armati di bilancino con cui misurare con certosina pedanteria il peso dei richiami ai grandi modelli della scena e, dunque, pur riconoscendo innegabili rimandi a Katatonia, Antimatter o agli ultimi, diafanizzati Anathema (più qualche spunto di marca Alcest senza un Neige a brandire abrasivamente il microfono), il consiglio è quello di arrendersi completamente all’ascolto rinunciando a qualsivoglia approccio cerebrale e lasciandosi trasportare dal flusso descrittivo e narrativo. Con queste premesse, non stupisce che gli Still Wave impieghino pochissimo per conquistarsi sul campo il titolo di gran maestri d’atmosfera, maneggiando da consumati fuoriclasse chiaroscuri e toni pastello per proiettarci in una dimensione crepuscolare dove la malinconia assume contorni quasi rassicuranti trasformandosi in un rifugio per anime impegnate in percorsi introspettivi, più che intente a rivendicare titanicamente il senso della propria presenza nella Storia e nel Tempo. Il cerimoniere supremo di questa liturgia del grigio non poteva che essere il vocalist Valerio Granieri, in libera uscita dalla casa madre Rome In Monochrome e pronto anche in questa prova a mettere a frutto un timbro vocale unico (e non solo nel panorama tricolore, visto che per l’accostamento più immediato bisogna probabilmente abbandonare l’intero metal universo arrivando a scomodare Michael Stipe) con il suo cantilenato a volte ipnotico, a volte struggente, a volte romanticamente decadente, ma sempre e comunque in collegamento diretto con le emozioni. Intorno a lui, peraltro, il resto della band sfodera prestazioni non meno monstre, a partire dalle sei corde sempre ispirate del duo Fois/Aurizzi (eccellenti alcuni riff hard/classic rock-oriented di chiara e nobile ascendenza blues), passando per la batteria di un Daniele Carlo imprescindibile sia come guida dei ritmi cadenzati nelle andature doom che come creatore di caos negli strappi black, per finire con la perfezione da metronomo impeccabile di Manuel Palombi al basso, con citazione d’obbligo anche per le sue incursioni in scream, sempre ottimamente assestate e incastonate opportunamente nel corpo dei brani. Sette tracce dalla durata ragionevolmente contenuta per un ascolto complessivo di poco superiore ai quaranta minuti, A Broken Heart Makes an Inner Constellation si apre con un tris d’assi qualitativamente clamoroso, che lascia solo l’imbarazzo della scelta del potenziale best of, a cominciare dalle velleità space e i tormenti black dell’opener “Spaceman (With A Gun)”, individuato non a caso come brano di lancio del platter e corredato da un eccellente video a cui rinviamo per cogliere i tratti salienti della poetica dei Nostri. In alternativa, si può puntare sulle spire più marcatamente doom della successiva “Dead End”, in cui prevalgono le spinte narrative, o sulle escursioni melodicamente e deliziosamente accattivanti di “Near Distant”, a sua volta colonna sonora di un altro, ottimo video pubblicato in anteprima dalla label These Hands Melt. Dopo questa travolgente cavalcata, la prima parte e il finale della strumentale “11” indossano i panni di una (relativa) pausa, con le iniziali venature psych e i conclusivi richiami prog acustici, ma si riparte presto con la perla visionaria del lotto, “Starwound”, esempio perfetto di come una fruibilità alle soglie dell’orecchiabilità non sia necessariamente un male assoluto, se è maneggiata con la dovuta ispirazione (e qui grande applauso al riff finale). Detto di una “Ghost of a Song” che incarna relativamente da vicino gli stilemi Rome In Monochrome con una più che apprezzabile nota epic in sottofondo (qualcuno ha detto “A Solitary King” o “Antiheart”?), il sipario cala sulle note della magnifica “The Coldest Home”, ennesima perla di una corona che mantiene tesa fino in fondo la corda della tensione, partendo stavolta da una base contemplativa per proseguire in una dimensione quasi cerimoniale, prima che un’improvvisa e inattesa cavalcata black strappi alcestianamente il fondale.
Delicato e malinconicamente elegante ma dotato di un cuore in cui pulsano contrasti e rimpianti, apparentemente rassicurante ma sempre con la sensazione di accompagnarci su una crosta sottile sotto cui ribolle un magma ignoto che ci chiama a sé, A Broken Heart Makes an Inner Constellation è un arsenale sterminato di dettagli e sfumature d’autore, che mutano angolature e prospettive assecondando lo stato d’animo di chi si metta all’ascolto. Per tutti quelli che scrutano il cielo alla ricerca di un segno che anticipi l’arrivo dell’autunno, la costellazione Still Wave è pronta a offrire speranza, i colori non saranno così accecanti per sempre.
(These Hands Melt, 2024)
1. Spaceman (With a Gun)
2. Dead Ends
3. Near Distance
4. 11
5. Starwound
6. Ghost of a Song
7. The Coldest Home