“Il progressive metal è un sottogenere dell’heavy metal, sviluppatosi verso la fine degli anni ottanta. Il genere unisce l’aggressività e il volume dell’heavy metal con la maestosità e le ambizioni classiche del rock progressivo.”. Così la più famosa e consultata enciclopedia online definisce, sinteticamente ma tutto sommato con buona precisione, l’orizzonte stilistico e temporale di uno dei metal sottogeneri a più alto rischio flame, crociate e scontri ideologici tra sostenitori a prescindere e detrattori in servizio permanente. Se a questo aggiungiamo il non meno significativo alone di sospetto e perplessità che avvolge l’universo post-metal agli occhi dei trve defenders of the faith, si può capire come il percorso di moniker che scelgano di avventurarsi a cavallo delle due frequenze rischi di rivelarsi quantomeno accidentato, se non impervio.
Fortunatamente, però, capita talvolta che una congiunzione astrale favorevole o un allineamento straordinario di pianeti riesca a far abbassare la guardia alle pattuglie dei critici e alle lenti di chi vive la musica come certosina vivisezione di parti e componenti ed è questo sicuramente il caso dei franco-scozzesi Dvne, apparsi sulla scena nel 2013 con un promettente EP ad alto tasso di sporcature sludge/stoner e approdati quattro anni dopo alla dimensione full-length lasciando immediatamente il segno. Stiamo parlando di Asheran e già in quell’occasione in molti avevano gridato al miracolo, lodando la straordinaria capacità della band di proporre un intreccio articolato ma allo stesso tempo fruibilissimo di ardite strutture prog e oscurità di marca post. A dimostrazione del fatto che non ci trovassimo al cospetto di un banale frutto del caso o della buona sorte, il successore Etemen Ænka è riuscito nell’impresa di alzare ulteriormente l’asticella della qualità, al punto da finire tra le citazioni d’obbligo in molte delle classifiche di fine anno anche oltre i ristretti recinti dei metal sottogeneri. Dopo due siffatte supernove, era inevitabile che attese e speranze si concentrassero sul nuovo, annunciato cimento e la risposta offerta da questo Voidkind non lascia spazio a dubbi, i Nostri non hanno perso il tocco magico e continuano a sfornare album con vista sulla prospettiva “capolavoro”. La prima buona notizia in arrivo dai solchi è che anche in questa circostanza Victor Vicart e soci riescono con apparente e disarmante facilità a mantenersi in equilibrio tra la ricerca di architetture audaci alle soglie della temerarietà e un occhio sempre puntato sulla fluidità dell’ascolto, restando così lontanissimi da quell’autocompiacimento tecnico/cerebrale foriero di approcci algidi che spesso fungono da criptonite per chi si accosta al pianeta prog. Secondariamente, funziona del pari il rapporto con i grandi classici del genere (almeno per chi non intenda l’originalità ad ogni costo come misura unica del valore di un platter), al punto che possiamo tranquillamente tagliare i nodi gordiani delle potenziali “ascendenze” citando più che tranquillamente i riflessi Mastodon, Tool o Cult of Luna senza che debba insinuarsi il benché minimo sospetto di plagio o anche solo di ricorso di maniera a cliché consolidati. La verità è che i Dvne sembrano geneticamente dotati di un carico di freschezza compositiva che consente di cambiare parzialmente i dosaggi (stavolta ad esempio è innegabile un discreto arretramento sia degli affluenti più fangosi di marca sludge che delle aperture più cinematografico/visionarie) senza rinunciare alla maestosità di un insieme che mantiene intatta la sua forza di attrazione caleidoscopicamente magnetica. Contemporaneamente, il quintetto dimostra di aver fatto ulteriori passi avanti sul versante della maturità, a cominciare da prove individuali ormai alle soglie dell’impeccabile sia quando si tratti di esaltare il lavoro delle sei corde, sia nei mai invasivi e sempre opportuni rintocchi di tastiera a cura della new entry in line up Maxime Keller, sia in un comparto vocale declinato con pari maestria dalla coppia Vicart/Barter nel duplice registro clean/scream, sia nella monumentale prova alle pelli di un Dudley Tait che, al netto di una produzione che forse non gli rende del tutto giustizia, dimostra di essersi incamminato sulle divine orme di un mostro sacro del calibro di Danny Carey. In questo pullulare di lodi e note di merito, l’unico, vero appunto che si può muovere a Voidkind è probabilmente l’assenza in tracklist del brano destinato a far crollare i loggioni anche in modalità stand alone (per intenderci, la funzione egregiamente svolta in Etemen Ænka da una “Towers” o, ancor più, da “Omega Severer”), ma è altrettanto vero che le tracce proposte finiscono per comporre un altopiano qualitativamente sconfinato da cui sono rigorosamente bandite ordinarietà e mediocrità. Con simili premesse, non stupisce che tutti gli episodi possano presentare un’autorevole e congruamente motivata candidatura al ruolo di best of del lotto (e personalmente confesso che ad ogni ascolto l’esito della singolar tenzone è tutt’altro che scritto nel bronzo) e non resta quindi che abbandonarsi al gioco di tempeste, bonacce e maree che i Dvne sanno condurre e modulare da consumati fuoriclasse. I saliscendi emozionali sono così la vera cifra stilistica del platter e, detto di un’opener come “Summa Blasphemia” che apparecchia impeccabilmente lo spettacolo a colpi di potenza e velocità e della successiva “Eleonora” che salda il debito con la lezione Mastodon, tra i gioielli della corona ci permettiamo di segnalare almeno l’aura vagamente settantiana e le aperture melodiche che impreziosiscono “Reaching for Telos”, così come i riff trascinanti che si insinuano a metà percorso di “Reliquary” e si impadroniscono in fretta del centro della scena con un retrogusto vagamente orientaleggiante. Per chi, invece, fosse alla ricerca di spunti maestosamente teatralizzati, la risposta è “Abode of the Perfect Soul”, con un magnifico finale di scuola Tool che aggiunge ottani a un carburante già di primissima qualità, ma per cogliere il distillato aureo della poetica della band è bene non trascurare anche il crescendo che anima gli ultimi minuti di “Plērōma” e le atmosfere dense che tolgono il respiro nella conclusiva e oscura “Cobalt Sun Necropolis”.
Coraggiosamente complesso e articolato ma contemporaneamente capace di trasmettere emozioni a presa rapida, rifinito fin nei più piccoli dettagli ma del tutto estraneo a un trionfo di forme accademicamente autocelebrative, Voidkind è un album che strappa applausi dalla prima all’ultima nota, ripetendo l’incanto dei già augusti predecessori. Permettendoci di scomodare il classico climax di Agatha Christie, se Asheran era stato un indizio e Etemen Ænka una coincidenza, con questo nuovo, clamoroso cimento i Dvne forniscono la prova definitiva che il cielo prog/post può contare su una stella fissa in più, luminosissima.
(Metal Blade Records, 2024)
1. Summa Blasphemia
2. Eleonora
3. Reaching for Telos
4. Reliquary
5. Path of Dust
6. Sarmatæ
7. Path of Ether
8. Abode of the Perfect Soul
9. Plērōma
10. Cobalt Sun Necropolis