Un fiume all’inizio costantemente in piena e pronto a esondare, approdato col tempo a una dimensione sempre più carsica mantenendo però intatta la purezza della sorgente… Potremmo forse riassumere così, in una sorta di istantanea necessariamente sommaria, la carriera di una delle voci più iconiche e rappresentative della scena metal (e non solo), capace come poche altre di elevare a vette vertiginose il livello di attesa al solo annuncio di una nuova release che la veda protagonista.
Stiamo parlando di Julie Christmas e chi ha avuto la fortuna e il piacere di seguirne puntualmente i passi artistici ricorderà sicuramente come, a un inizio percorso caratterizzato da uscite a tamburo battente alla guida dei progetti Made Out of Babies e Battle of Mice, sia successivamente corrisposto un lunghissimo periodo in cui i silenzi hanno stravinto la partita sulle epifanie. Paradossalmente, il punto di svolta temporale ha coinciso con l’esordio in modalità solista, precisamente con quel The Bad Wife che pure sembrava avere tutte le carte in regola per rappresentare un trampolino di lancio qualitativamente perfetto per un futuro più che roseo. Era il lontanissimo 2010 e, se eccettuiamo lo stringato EP Coextinction Recordings 5 e una fugace apparizione sotto le insegne Spylacopa, per risentire il nome di lady Christmas bisognerà attendere il 2016 e quella clamorosa collaborazione con i Cult of Luna che, dai solchi di Mariner, ha regalato alle legioni post-metal uno dei vessilli da innalzare con più orgoglio come manifesto dell’intero genere. Chi per caso avesse in qualche modo interpretato quel cimento come l’annuncio della ripresa di un’attività discografica a pieno regime sarà rimasto sicuramente deluso, dato che la Nostra è di nuovo scomparsa nell’ombra, per riapparire soltanto ora, a otto anni di distanza, con questo Ridiculous And Full Of Blood. A dispetto dell’inesorabile trascorrere del tempo, però, la divina Julie dimostra ancora una volta di saper trasformare tutto ciò che tocca in oro, scegliendo di riannodare i fili soprattutto con trame e orditi che avevano caratterizzato The Bad Wife. Il risultato, rispetto alle rotte a più alto tasso hardcore/sludge/noise tracciate a inizio carriera, è quindi anche stavolta un lavoro che alle tempeste e alle dissonanze affianca una spiccata componente intimista con passaggi al limite del lirismo, aprendosi a prospettive squisitamente poetiche. In termini strettamente pentagrammatici, l’orizzonte più prossimo (e prevalente) in cui collocare il platter è quello di un post-metal visionario solcato da venature acidamente corrosive, ma guai a sottovalutare la portata dei momenti di raccoglimento, che finiscono per lasciare impronte indelebili sulle atmosfere sfumando forme e contorni, come peraltro anticipato dall’artwork di una cover enigmaticamente inquietante. L’altro punto di forza dell’album è la solita, straordinaria capacità della vocalist di Brooklyn di maneggiare il registro del “teatrale”, offrendo una rassegna di episodi illuminati da luci di riflettori ora sinistri, ora prepotentemente evocativi, ora disperanti, ora malinconicamente orientati, al punto che alla definizione di post-metal è più che opportuno accompagnare anche quella di avantgarde. Ed è su queste coordinate artistiche che si possono incontrare finanche richiami tutt’altro che secondari alla nobile scuola post-punk di settantiana memoria, in un ipotetico connubio oltre lo spazio-tempo tra una Bjork o una Chelsea Wolfe contemporanea e una Siouxsie Sioux che abbia voglia di riproporre lo spirito degli esordi prima della svolta new-wave/gothic (e magari con una Lene Lovich sullo sfondo ad apprestare fondali, costumi e scenografia…). Ad abbordare le soglie dell’impeccabilità contribuisce peraltro una batteria di ospiti/compagni di viaggio dallo straordinario pedigree, da John LaMacchia (sei corde dei poliedrici Candiria, oltre che antico sodale sotto le insegne Spylacopa) a Chris Enriquez (gran maestro delle bacchette in casa Spotlights), passando per il bassista/produttore Andrew Schneider e per le incursioni vocali che vedono protagonista Johannes Persson. Con simili premesse, non stupisce che a un primo impatto la tracklist possa trasmettere una sensazione di disomogeneità, ma sulle lunghe distanze questa potenziale debolezza diventa al contrario un punto di forza del lavoro, valorizzando un’ispirazione in grado di innervare qualsivoglia anfratto sonoro la Christmas decida di frequentare, dalle cantilene infantili declinate con un retrogusto lovecraftiano alle atmosfere liquide che in un breve volgere di solchi diventano densissime, popolandosi di asprezze che infrangono il flusso melodico. Non resta quindi che incamminarsi senza certezze preconfezionate in un simile, sorprendente percorso, aperto da una “Not Enough”, che si fa subito manifesto artistico con la sua andatura accidentata nelle strofe che si scioglie in un trascinante ritornello ad alto tasso di orecchiabilità, per passare alle movenze quasi radiofonicamente catchy della successiva “Supernatural” o alle spire shoegaze che avvolgono il finale di “The Ash”. In questa tavolozza caleidoscopicamente apparecchiata c’è spazio anche per le convulsioni punk (“Thin Skin” e “Blast”), le suggestioni marziali (“Silver Dollars”) o il divertissement sghembo (“Kids”), ma, dovendo puntare i nostri umili cents per delineare un ipotetico podio qualitativo, accendiamo i fari innanzitutto sulla vena cinematografica di “End Of The World” (non a caso il vertice delle reminiscenze Cult of Luna e dei richiami a Mariner, non solo per il contributo di Persson al microfono) e sulla cristallizzazione del ritmo della conclusiva “Seven Days”, che parte da contorni quasi epici per approdare a una dimensione teatrale perfetta per la calata del sipario. Per il seggio più alto, però, la sfida se la aggiudica probabilmente la traccia dal minutaggio più sostenuto del lotto, “The Lighthouse”, con il suo incedere compassato da semi-ballad notturna e trasognata su cui si avventano improvvisi flash, che alterano la percezione della realtà senza recidere del tutto il cordone ombelicale con la melodia… e anche qui la presenza di Persson supera di slancio la modalità cammeo per diventare sangue e carne vivissima del brano.
Ottovolante emozionale in grado di trascinare e travolgere ma anche di commuovere e avvolgere in veli eleganti e raffinati, discese negli inferi che si alternano a improvvise ascese contemplative, rivoli acidi e armonie che convivono nelle stesse acque, Ridiculous And Full Of Blood è un album che ripaga abbondantemente dell’attesa per il ritorno sulle scene di una fuoriclasse. Uno status da regina e il solito trono sempre pronto ad accoglierla, molto più che bentornata, Julie Christmas.
(Red Crk, 2024)
1. Not Enough
2. Supernatural
3. The Ash
4. Thin Skin
5. End Of The World
6. Silver Dollars
7. Kids
8. The Lighthouse
9. Blast
10. Seven Days