Colpo di fulmine travolgente o innamoramento a fuoco lento? Al cospetto di una qualsivoglia produzione artistica, al di là del suo valore intrinseco, il primo dilemma più o meno consapevolmente da affrontare è se e quanto la classica “prima impressione” risulterà decisiva ai fini della valutazione finale, sapendo che, in entrambi i casi, posizioni troppo estreme mettono a forte rischio l’incontro con opere e artisti. Personalmente, confesso di militare con discreta convinzione nel primo dei due partiti, ma non al punto da escludere del tutto la possibilità, fosse anche solo semel in anno, di cambiare quasi completamente idea su un album passato complessivamente inosservato e giudicato poco coinvolgente al primo ascolto.
L’occasione per incontrare un’eccezione pronta proverbialmente a confermare la regola si è improvvisamente materializzata con il sophomore del progetto finlandese Endless Chain, protagonista nel 2021 di una prova di esordio con più ombre che luci, Forthcoming Past, in cui qualche buona idea ha finito per perdersi nel mare magno dei richiami alla scuola gothic/dark/prog rock e metal di classica marca scandinava, il tutto gestito un po’ troppo scolasticamente e a troppo stretto contatto con la lezione dei giganti del genere. Con simili premesse, era forse fisiologico un approccio quantomeno cauto se non proprio diffidente a questo secondo capitolo ed effettivamente i primi giri di solchi di questo Agony sembravano non avere granché da aggiungere al cimento precedente, con poco da eccepire sul versante formale ma più di qualche perplessità sulla profondità di campo complessiva della proposta. Premesso che la formula è rimasta sostanzialmente la stessa del debut, con il mastermind Timo Mölsä circondato stavolta un po’ più organicamente da compagni di viaggio in pianta stabile e ospiti di primo piano, in una sorta di wunderteam del sempre pirotecnico universo pentagrammatico finlandese, la novità è che, almeno per chi scrive, l’album è letteralmente “esploso” col moltiplicarsi degli ascolti, arrampicandosi in fretta sulla scala che porta dal “maaaaah, non so” al “bravi, bravi, bravi davvero”. Saranno forse le imperscrutabili rotte del gusto, o forse, chissà, la band avrà cosparso i solchi di un fluido magico a rilascio lento, ma resta il fatto che quasi all’improvviso tutti quelli che sembravano limiti e difetti si sono ricomposti in un’unità clamorosamente superiore alla somma delle singole parti, impedendo finanche una risposta certa e definitiva alla domanda su cosa sia davvero cambiato tanto da far partire gli applausi dove in precedenza regnavano i dubbi. Architetture dei brani oltremodo semplici e convenzionali, ritornelli di facilissima presa, coretti catchy, allettamenti radiofonici, in generale una potabilità apparentemente ben oltre il livello di guardia della ruffianeria, tutto si sublima in una pozione da assumere tutta d’un fiato e da godersi senza prenotare sedute di metal-analisi al grido di “oddio, non sarà che non sono più TRVE?”. Ecco allora che, affrontato laicamente, Agony svela la sua anima di platter che connette alla perfezione il folk e le ombre poeticamente malinconiche del grande Nord, incamminandosi stavolta con un buon carico di personalità sui sentieri dove Amorphis, Insomnium e gli ultimi Katatonia hanno lasciato tracce significative (rispetto a quanto indicato nel promo sheet, ci permettiamo solo di non sottoscrivere i riferimenti agli Swallow the Sun, presenti al massimo in dosi coriandolari/omeopatiche e comunque mai con vista sull’oscurità). Così, tra assoli a profusione della coppia di sei corde Mölsä/Kuosa, una batteria in gran spolvero a cura di Samuli Mikkonen (non a caso già titolare delle pelli in casa Korpiklaani) e un comparto vocale doppiamente presidiato dal clean di Ville Hovi e dal growl di Aki Salonen, il risultato è un trionfo di atmosfere discretamente solari per gli standard del genere, ulteriormente impreziosite dalle incursioni di una stella di prima grandezza del calibro di Sami Yli-Sirniö, in libera uscita dalla leggendaria casa madre Kreator. Nove tracce e una breve intro per poco meno di quarantacinque minuti di ascolto complessivo, Agony si apre con le increspature folk vagamente orientaleggianti della title-track, a conti fatti l’episodio a più alto tasso muscolare della compagnia, ma comincia a svelare la sua vera natura con la successiva coppia di tracce “Human Race” (decisamente intrigante il tocco gothic sinfonico alla Tristania, nel finale) e ”We Are We”, dove cavalcate travolgenti e improvvise pause del ritmo si alternano sulla scena, il tutto sotto il dominio assoluto di un’accattivante vena melodica che impedisce qualsiasi deriva drammatica. Ed è sempre una sorta di abbandono melodico la cifra stilistica più significativa di “Burn Your Skies Above”, dove peraltro scorre ben più che in filigrana qualche rivolo alternative e, ancor più, di “Ghost”, riuscita semi-ballad in modalità cantautorale che esplora con buoni esiti la dimensione intimista prima di un finale corale dal taglio vagamente settantiano. Detto di una “Until No One Comes” che svela coi suoi rintocchi di pianoforte un’indole malinconica anche nel tormentato finale, si giunge alla potenziale fonte per antonomasia di tutti i flame riguardo all’intero lavoro, “Blind Kings”, traccia in cui la corrente alternative rilascia scosse importanti mentre un ruffianissimo coretto dalla semplicità sconcertante ed echi Amorphis fanno di tutto per fissarsi indelebilmente nella memoria… riuscendoci alla perfezione. In questa carrellata finora impeccabile, l’anello relativamente debole è “Beyond What You Believe”, che, pur senza rovinose cadute, allenta un po’ troppo il filo della tensione scoprendo la corda del manierismo e faticando a decollare, ma si tratta una parentesi brevissima, perché a chiudere le danze provvede il gioiello della corona, plastica dimostrazione di come nulla sia impossibile, qualora i Nostri decidessero di puntare anche su minutaggi sostenuti e strutture più articolate. Stiamo parlando di “We Are All Vulnerable” e qui davvero siamo al cospetto del classico brano che varrebbe da solo il prezzo del biglietto, in un trionfo di struggente malinconia, chiaroscuri crepuscolari e un senso di abbandono quasi cosmico che funge da filtro per abbassare le luci e togliere brillantezza ai colori. Se a questo aggiungiamo la perla di un ritornello in cui sembrano risuonare (ovviamente più che rallentati) frammenti dell’antico grido maideniano “Fly on your way, like an eagle” e, soprattutto, un assolo da crollo dei loggioni di Sami Yli-Sirniö, è inevitabile alzarsi in piedi e accennare una standing ovation, a sipario calato.
Ispirato e commovente in qualche passaggio ma soprattutto spensieratamente diretto e senza inutili orpelli ad affaticare un viaggio che gioca le sue carte migliori su leggerezza e immediatezza, Agony è un album che riscatta abbondantemente il passo incerto del suo predecessore, regalandoci una band in ottimo stato di grazia creativa. Non è stato un colpo di fulmine, ma alla fine la tempesta l’hanno scatenata eccome, gli Endless Chain.
(Autoproduzione, 2024)
1. Intro to Agony
2. Agony
3. Human Race
4. We Are We
5. Burn Your Skies Above
6. Ghost
7. Until No One Comes
8. Blind Kings
9. Beyond What You Believe
10. We Are All Vulnerable