Da una parte, le ombre incombenti e minacciose di moniker che hanno trasceso la dimensione terrena approdando direttamente alle sacre dimore del mito, dall’altra un genere quanti altri mai soggetto a un processo di mutazione che ne ha in parte trasfigurato l’aspetto originario, al punto da renderlo ormai raramente fruibile nella sua forma più originariamente pura… Per tutte le band che abbiano scelto in questo terzo millennio di avventurarsi sui sentieri del doom “classico”, il viaggio presenta subito e pressoché inevitabilmente i tratti di un percorso ad altissimo tasso di difficoltà, tra le croniche diffidenze dei metal kids di un tempo divenuti nel frattempo attempati e grigiocriniti (e pronti a ripetere a ogni piè sospinto “dai, siamo seri, vuoi mettere i Black Sabbath, i Saint Vitus, i Pentagram, i Candlemass…”) e un gusto oggettivamente mutato nel tempo, che sembra ormai prevedere una sorta di inesorabile combinazione d’ufficio tra doom e altri habitat sonori, death e gothic su tutti senza dimenticare sludge, drone e stoner.
Con simili premesse, non stupisce che i gruppi impegnati nell’arduo cimento non siano esattamente una legione sterminata, ma va detto che, almeno sul palcoscenico tricolore, quasi tutti i nomi coinvolti (dai Bretus, ai Suum, ai Bottomless, senza dimenticare i momenti più “ortodossi” dei comunque poliedrici Messa) hanno dispensato negli anni dosi di qualità tutt’altro che trascurabili, nei loro lavori. Senza voler stilare fredde e asettiche liste, né, tantomeno, compilare classifiche di discutibile conio xfactoriano, in questa nobile compagnia ci sentiamo comunque di riservare un posto di primissimo piano per i capitolini Doomraiser, da ormai vent’anni alfieri inossidabili di quel doom primigenio che rinvia agli albori dell’epopea sabbathiana, con il suo corollario di sonorità e atmosfere settantiane. Se, però, il combo laziale non ha mai abbandonato la devozione pentagrammatica per gli augusti modelli, è altrettanto vero che non ha mai rinunciato a un percorso di crescita centrato sull’affinamento di forme e linguaggio, con risultati splendidamente riassunti e certificati da questo Cold Grave Marble, sesta fatica sulle lunghe distanze di una carriera in cui tutte le stazioni hanno comunque finora meritato una sosta. Gli assi portanti della proposta sono anche stavolta quelli prevedibilmente attesi su queste frequenze, con ritmi lenti e cadenzati e sonorità cupe sugli scudi (e spendiamo subito una doverosa e meritatissima standing ovation per il lavoro della sezione ritmica Andrea Caminiti/Daniele Amatori), ma, col trascorrere degli anni, i Doomraiser hanno approfondito i legami da un lato con la grande scuola hard rock e dall’altro con la componente dark, cogliendo col giusto senso della misura le opportunità di approdi quasi cinematografici in modalità potenziale colonna sonora di pellicole dai tratti lovecraftiani. In questo modo, oltre a incrementare banalmente la varietà di soluzioni a disposizione, si evita il vero, grande rischio degli album-macchina del tempo, cioè dispensare una patina vintage raccogliticcia e gelatinosa che finisce per avvolgere tutto in un eccesso di anacronismo che sconfina nella paccottiglia fuori tempo massimo. Al contrario, qui ogni elemento si incastona perfettamente e naturalmente nelle trame, a cominciare dal mattatore assoluto della scena doom, sua maestà il riff, speso sempre con impeccabile scelta dei tempi nel corpo dei brani e mai protagonista di trionfi autoreferenziali della coppia di sei corde Marco Montagna/Giuseppe Nantini. Il versante dell’oscurità delle atmosfere apre invece il significativo capitolo delle distanze dalla declinazione oggi prevalente del genere, dominata dalla ricerca di carichi emozionali che conducono sulle soglie dell’abisso (pensiamo al terzetto di fuoriclasse Swallow the Sun/Saturnus/Draconian), mentre invece l’approccio classico di scuola sabbathiana prevede un approccio più descrittivo ed essenziale, che esclude quasi del tutto approdi tragici o romantici abbandoni. Ma il vero asso nella manica per annodare i fili con la tradizione va ricercato nel comparto vocale, che non prevede il ricorso a growl e scream ma punta tutto sul clean e qui, come sempre, Nicola “Cynar” Rossi indossa i panni del gran protagonista con il suo timbro ora cantilenante, ora potente, ora prossimo ad esiti quasi teatrali. Come ulteriore regalo, i Doomraiser hanno chiamato a convegno ospiti di primissima grandezza del metal firmamento, tra cui è d’obbligo citare almeno una leggenda tricolore come Mario Di Donato e un mostro planetariamente sacro del calibro di James Murphy. Dieci tracce per un ascolto complessivo non distante dall’ora, Cold Grave Marble salta i preamboli e apre subito le ostilità con l’andatura poderosa e macina-ritmo dell’opener “Dark Omens” e con la doppia natura, sinuosa e sinistra, della successiva “Last Christmas I Gave You My Death” (ebbene sì, c’entrano gli Wham!, ebbene no, non è una cover con cambio di sostantivo della loro celebre hit ma solo una citazione dietro cui si cela la catarsi di Nicola Rossi dopo la morte del padre nella notte di Natale 2022), prima di innalzare ulteriormente l’asticella della qualità con l’ottima “Once Upon the Fireflies”, impreziosita da un avvio che respira riflessi The Doors e da un finale dove organo e chitarre dialogano magnificamente. Si rimane decisamente in quota con “Profondo Nero / Life in Black”, in cui rivivono i fasti della classica essenzialità Saint Vitus, immersa però in un’aura epic dai vaghi tratti Candlemass (e citazione d’obbligo per il cammeo in scream di Alberto “Flegias” Gaggiotti in libera uscita dalla gloriosa casa madre Necrodeath) e anche con la sorprendente title-track, in cui soffiano inattesi refoli grunge. Al confronto, convince meno la coppia “Without a Shadow/The Great Void”, con la prima un po’ troppo appiattita sugli stilemi del genere e la seconda che illanguidisce eccessivamente le atmosfere, ma si riprende subito il volo con le spire malignamente oscure di “Filthy Shades of Death” (anche qui l’intreccio di organo e sei corde è al di sopra di ogni sospetto) e, soprattutto, con la sinuosamente accattivante “Continuum Pt. 2&3”, perfettamente in equilibrio tra spunti ipnotici che incastonano una base trascinante e un finale pirotecnico dove i Nostri innalzano strutture massicce graffiate dal miglior riff del lotto, che azzarda riuscitissimi esiti melodici candidando più che autorevolmente la traccia al ruolo di best of dell’intera compagnia.
Oscurità, potenza e passaggi atmosfericamente soffocanti, devozioni declinate con un senso della misura e dell’equilibrio che allontana qualsivoglia rischio di passatismo fine a se stesso, Cold Grave Marble è l’ennesimo, imprescindibile tassello nella carriera di una band che sa guardare al passato senza cristallizzarlo in vuote forme e canoni. Nessun anacronismo, nessun arcaismo di maniera, anche stavolta i Doomraiser sono riusciti nell’impresa di viaggiare nel tempo suonando tremendamente contemporanei… qui ed ora.
(Time To Kill Records, 2024)
1. Dark Omens
2. Last Christmas I Gave You My Death
3. Once Upon the Fireflies
4. Profondo Nero / Life in Black
5. Cold Grave Marble (Winter Moon)
6. Without a Shadow
7. The Great Void
8. Filthy Shades of Death
9. Continuum Pt. 2&3 (Ultima Luce)
10. Buio