La lunga gestazione di Liminal Animals è giunta alla fine. Dopo aver pubblicato, mese dopo mese, una serie quasi infinita di (ipotetici) “singoli”, talvolta anche a coppie, gli Ulver hanno finalmente pubblicato l’album per intero. Sappiamo perfettamente tutti come le polemiche (soprattutto sonore) siano all’ordine del giorno, da anni, quando si parla di Ulver. Non vogliamo in questa sede addentrarci troppo nell’argomento, e, conseguentemente, venire risucchiati in quel vortice, per certi versi adolescenziale, in cui l’iconoclastia regna sovrana, insieme all’idea che una band debba, quasi per forza, in segno di rispetto per un non specificato dogmatismo di natura soprannaturale, essere costretta a fare album pedissequamente identici. Per cui ci limitiamo a parlare del disco, indipendentemente da quello che gli Ulver rappresentano – o abbiano rappresentato – per tutti coloro che li seguono da quel lontano 1995 in cui diedero alle stampe quel Bergtatt – Et Eeventyr i 5 Capitler che li fece conoscere al mondo intero.
Liminal Animals ha una sua coerenza sonora. Questo deve essere chiaro, in partenza, per tutti. Può piacere, annoiare o disgustare, ma non possiamo prescindere da questa considerazione iniziale. E, allargando il discorso, in tema di coerenza, troviamo che paradossalmente ci sia proprio una grande coerenza nel fare album slegati uno dall’altro, perché quando si parla di un progetto come questo, il termine “coerenza” è da intendersi legato alla libertà mentale che permette di andare in direzioni tra loro diversissime. In un ragionamento come questo, paradossale quanto si vuole, gli Ulver rappresentano il manifesto della coerenza. Adoro i progetti che non mostrano punti deboli e che disilludono tutti coloro che cercano certezza nella routinarietà. Non posso quindi non adorare una band come questa che, puntualmente fa quello che cazzo vuole. Ma soprattutto lo fa con grande maestria. La loro storia recente racconta di un percorso in cui non sappiamo mai cosa ci aspetta nel momento in cui andiamo ad ascoltare un loro disco per la prima volta. Ed è esattamente questo quello che mi piace far coincidere con il termine “ricerca” nel momento in cui lo associo alla musica. Tutto quello che, per me, è un punto di forza, sono certo che sarà – o è – per la stragrande maggioranza di quelli che leggeranno queste mie parole, un’aggravante che andrà a macchiare in modo ancor più indelebile la già, irrimediabilmente segnata, fedina penale della band. Ma, come è fin troppo chiaro, non si può (sempre) accontentare tutti. Restando invece sull’album in quanto tale, Liminal Animals è da inquadrare come parte di quel processo di crescita che guarda alla ricerca sperimentale, e che si stacca in maniera – forse definitiva, ma, dato che parliamo degli Ulver, non possiamo assolutamente permetterci di dare nulla per scontato – dal metal più estremo degli esordi. Possiamo sbizzarrirci nel tentativo di trovare la definizione che più ci piace al loro sound odierno. Possiamo chiamarlo synthpop, dark wave, new wave, o come più vi aggrada, ma si tratta solo di un esercizio di stile. L’unico fatto concreto è che il disco se ne frega di tutto ciò, e resta perfettamente allineato alla sua idea di base, quella di puntare “altrove” rispetto al sentire comune. Se oggi gli Ulver sentono di dover manifestare i loro sentimenti sposando un sound che un tempo nessuno avrebbe azzardato, per me non c’è assolutamente nessun problema. Il punto non è il genere a cui si rifà una band, ma come si pone in questo contesto. Se cioè possiede le qualità per cimentarvisi. E in questo gli Ulver non sono secondi a nessuno. Noi dobbiamo guardare alla resa sonora, non alle nostre aspettative. E un album come questo ha una resa sonora assoluta, ed estremamente gradevole. Se, inizialmente, Liminal Animals almeno in partenza ricalca a grandi linee il precedente Flowers of Evil, man mano che si prosegue nell’ascolto, il disco ci prende per mano e ci porta a scoprire intimismi legati a sensazionali linee melodiche che si spostano costantemente tra il dark, l’elettronica e la new wave, tra le tante. Un lavoro che riesce nella non facile impresa di spegnere sul nascere ogni nostra certezza, tra un brano e l’altro, e che, nonostante l’immediatezza – almeno apparente – resta uno dei più cupi nel suo incedere, e che culmina in un momento tra i più neri della loro storia recente. Non a caso il disco è dedicato alla memoria di Tore Ylwisaker, membro storico della band dal 1997, scomparso nell’agosto di quest’anno.
Usciamo per una volta dall’idea che la melodia e l’oscurità non possano essere due facce della stessa medaglia che si completano e si valorizzano vicendevolmente. Un album che suona in maniera sublime e che se non fosse stato fatto dagli Ulver ascolteremmo tutti con grande entusiamo.
(House of Mythology, 2024)
1. Ghost Entry
2. A City in the Skies
3. Forgive Us
4. Nocturne #1
5. Locusts
6. Hollywood Babylon
7. The Red Light
8. Nocturne #2
9. Helian (Trakl)