Wyatt E. è la creazione del duo belga formato da Stéphane Rondia e Sébastien von Landau. Il loro esordio è datato 2017, e coincide con la pubblicazione di Exile to Beyn Neharot uscito per Shalosh Cult. A distanza di cinque anni si ripresentano, questa volta su Stolen Body Records, con Āl Bēlūti Dārû. Tra i due album ci piace sottolineare anche la pubblicazione dell’interessantissimo disco che riprende la loro esibizione al Roadburn Festival nel collettivo Atonia, in compagnia di Five The Hierophant e Tomer Damsky (conosciuta anche come MC Slice), istrionica performer e sound artist molto poco conosciuta qui da noi, presente come ospite anche su quest ultimo album insieme alla cantante iraniana, costretta all’esilio in UK, Nina Saeidi.
La band, pur se belga di nascita non nasconde, anzi fa vanto, delle proprie origini mesopotamiche, con radici che si perdono tra Siria e Israele. Se a tutto questo sommiamo l’amore per la storia da parte dei due, il gioco è fatto. Un progetto come questo inizia ad assumere una sua valenza, proprio perché ha nel – suo – sangue, un legame forte con gli argomenti che tratta, e che ci racconta, in musica. Wyatt E. mostra tutta la sua voglia di creare qualcosa che possa andare a esplorare il mondo musicale contemporaneo, ma che al tempo stesso riesca a mantenere uno stretto legame con il passato, volto a riscoprire le origini, le radici dei propri antenati. La scelta di dedicarsi alla ricerca sonora, con ampio spazio alle contaminazioni, è quindi, conseguentemente, l’unica via percorribile. Sublimata dalla scelta, in fase live, di esibirsi avvolti in tuniche nere e maschere bizantine da cui spuntano soltanto gli occhi. Da un punto di vista strettamente sonoro invece la band belga mostra un approccio che guarda ad un legame stretto, forte e radicato che possa esaltare la componente mistica dei loro temi. Cosa che riesce loro in modo più che ottimale. Zamāru ultu qereb ziqquratu Part 1 è infatti un album trascinante e sognante che ci trasporta in uno spazio-tempo alieno al quotidiano. Quella che loro definiscono “musica per l’élite israeliana deportata in Babilonia dal Re Nabucodonosor II nel 587 A.C.” è un insieme di sonorità che riconduciamo ad una pluralità che sposa elementi tradizionali e occidentali, in cui per la prima volta fa la sua comparsa la componente vocale – grazie alle ospiti di cui sopra.
In molti li hanno inseriti nel calderone “doom“, ma crediamo che un progetto di questa profondità – soprattutto – culturale debba essere lasciato libero da qualunque tipo di vincoli. Corredato da liriche semitiche (aramaiche e accadiche) l’album mostra fieramente il suo lato più ambizioso, rischiando, ma con la spocchia di chi sa che sarà in grado di mantenere quanto promette.
Heavy Psych Sounds Records, 2025)
1. Qaqqari la târi Part I
2. Kerretu Mahrû
3. Im Lelya (feat. Tomer Damsky)
4. The Diviner’s Prayer to the Gods of the Night (feat. Nina Saeidi)
5. Ahanu Ersetum