Tra tutti i possibili approcci a cui far ricorso quando ci si accinge a scrivere una recensione, la “modalità fan” è indubbiamente la meno indicata, visto che per definizione comporta la perdita di quella distanza critica che deve sempre separare penna e solchi, ma ci sono moniker per cui l’impresa assume i contorni di una titanica sovrumanità, quando al semplice annuncio del rilascio di un nuovo album scatta pressoché pavlovianamente la certezza che ci si troverà al cospetto dell’ennesima opera d’arte. Ci si prova sempre, a resistere, ci si ripete che dovrà pur esserci, l’eccezione che NON conferma la regola, ma è come se le note in arrivo da cuffie & casse sapessero esattamente come e dove colpire per travolgere le linee di difesa e resistenza, pretendendo una resa totale.
Per chi scrive, è questo sicuramente il caso degli Avatarium, capaci in poco più di dieci anni di scalare gli impervi sentieri del doom tradizionale arrampicandosi su vette che, ad oggi, condividono con pochissimi altri nomi della scena internazionale. Partiti subito col proverbiale botto grazie all’omonimo, strepitoso debut del 2013, gli svedesi hanno inanellato una serie di prove sempre magicamente concepite, mantenendo solide radici nella tradizione settantiana del genere senza suonare mai anacronistici o fuori tempo massimo. Chi ha avuto la fortuna di vivere la loro epopea fin dagli esordi, ricorderà probabilmente che, tra le spinte iniziali, c’era la curiosità di vedere all’opera in un progetto parallelo uno dei padri fondatori (e tuttora titolare delle quattro corde) della leggenda Candlemass, Leif Edling, ma, anche dopo la dipartita dalla line-up del sommo maestro nel 2017, i Nostri hanno dimostrato ad ogni uscita di aver appreso con risultati straordinari l’arte di modulare e assemblare riff e andature cadenzate, regalando lavori entusiasmanti per coinvolgimento emotivo e cura formale. L’arma vincente del combo di Stoccolma è da sempre la chimica perfetta del sodalizio artistico (nonché nella vita) tra il signore delle sei corde Marcus Jidell e la regina del microfono Jennie-Ann Smith, psicoterapeuta prestata al pentagramma (o viceversa?) e raffinata arbitra elegantiarum ad ogni ascesa su un palco (digitare “Pearls and Coffins” nell’apposito spazio ricerca su qualsivoglia piattaforma web, per credere). Li avevamo lasciati, poco più di due anni fa, con l’ottimo Death, Where Is Your Sting, con la certezza che fosse il biglietto da visita ideale per l’avvio della seconda decade di carriera della band e la conferma che sotto il cielo scandinavo nulla è cambiato sul versante qualitativo arriva con questo Between You, God, the Devil and the Dead, sesto capitolo di un viaggio che ad ogni fermata ha riservato validissimi motivi per una sosta ben più che distratta e superficiale. In via preliminare e a scanso di possibili equivoci, è bene chiarire subito che il nuovo cimento si colloca a più che discreta distanza da orizzonti metal rigidamente intesi, esplorando territori hard rock in cui il doom è una sorta di rumore cosmico di fondo che continua ad accompagnare l’espansione sonora dei Nostri dopo il big bang primigenio. Niente abissi terrificanti, nessuna oscurità minacciosamente incombente, pochi momenti di smarrimento, la cifra stilistica dell’album spazia prevalentemente dalla malinconia in chiaroscuro a una sorta di teatralità corale, da cui peraltro sono rigorosamente bandite stucchevolezze e leziosità, a tutto vantaggio di un’immediatezza che agevola la fruizione senza però lambire neanche lontanamente la soglia della dimensione prêt-à-porter. Il risultato è anche stavolta un lavoro a cui è sostanzialmente estraneo l’effetto macchina del tempo, assumendo piuttosto i contorni di una classicità che riecheggia nobili modelli mantenendosi a debita distanza per evitare l’incenerimento delle ali. Come sempre, motore e carburante sono ampiamente garantiti dall’impeccabile gioco di squadra tra le chitarre di Jidell (incredibile il senso della misura nella costruzione delle ritmiche e nell’articolazione degli assoli, in cui il gusto seventies trionfa esaltando le ascendenze blues) e la prova vocale di lady Smith, sempre più a suo agio nei panni dell’interprete “pura”, con l’eleganza come tratto distintivo ma capace all’occorrenza di proficue escursioni in registri languidi o potenti. Otto tracce per poco più di quaranta minuti di ascolto complessivo, Between You, God, the Devil and the Dead accende immediatamente fuochi d’artificio con l’opener “Long Black Waves”, mirabilmente sospesa tra suggestioni sabbathiane ed echi Deep Purple, e la successiva “I See You Better in the Dark”, che sfodera un gran tiro rock a presa rapida con tanto di ritornello accattivante a suggerire potenziali approdi radiofonici, ma il gran decollo si materializza con la magnifica “My Hair Is On Fire (But I’ll Take Your Hand)”, distillato aureo di tutte le anime della band, dagli abbandoni malinconici a un’enfasi da palco che diventa quasi inno cerimoniale e collettivo. Si resta su altopiani qualitativamente eccelsi anche con “Lovers Give a Kingdom To Each Other”, impreziosita da una delicata e struggente vena acustica che trasuda conturbanti gocce prog, mentre tocca alla ruvida “Being with the Dead” ripristinare il tono muscolare del platter, prima che qualche ombra sinistra si affacci sulla scena grazie alle spire oscure di “Until Forever and Again”, punto di maggiore (e riuscito) contatto con l’ortodossia doom e la memoria Candlemass. Dopo la breve, strumentale “Notes from Underground” (a metà strada tra il divertissement chitarristico e un vago retrogusto psych), il gran finale è affidato alla stupenda title-track, semi-ballad che parte in modalità intimista/notturna per esplodere letteralmente in un trascinante canto corale, che invita ad alzarsi in platea e galleria per accompagnare una calata del sipario mai così ad effetto.
Una classe cristallina, una capacità innata di attraversare il Tempo senza farne avvertire il peso in termini di cambiamenti di gusti e sensibilità, un caleidoscopio di luci e colori riuniti sotto un cielo che non ha bisogno di effetti speciali per essere incantevole, Between You, God, the Devil and the Dead è l’ennesima prova di forza qualitativa di una band che può meritatamente fregiarsi del titolo di fuoriclasse della scena doom/hard rock. Sei album, sei centri pieni; se si parla di carriere da applausi, il nome degli Avatarium non ha bisogno di sgomitare, per conquistare un posto più che al sole.
(AFM Records, 2025)
1. Long Black Waves
2. I See You Better in the Dark
3. My Hair Is On Fire (But I’ll Take Your Hand)
4. Lovers Give a Kingdom To Each Other
5. Being with the Dead
6. Until Forever and Again
7. Notes from Underground
8. Between You, God, the Devil and the Dead