A me piace spulciare in rete, sempre alla ricerca di musica nuova e stimolante. Capita così di imbattersi in nomi citati a destra e manca, ed è lì che mi trasformo in un cane da punta, vado dritto al bersaglio e, quasi sempre, trovo una preda bella succulenta. Come in questo caso: Who Let The Dogs Out, debutto per il duo inglese da Brighton delle Lambrini Girls – Lilly Macieira al basso e Phoebe Lunny, cantante e chitarrista – che è una delizia per le orecchie.
Saltiamo pure i convenevoli. Il disco è una piccola bomba atomica, tascabile, la porti in giro con comodità, si abbina a qualsiasi outfit, è dirompente, elegante, sontuoso, esaltante. Se la parte musicale è agevolmente ascrivibile al florido filone post-punk che Oltremanica sta infiammando le classifiche da anni, è il comparto lirico quello che va applaudito fino a spellarsi le mani. Macieira e Lunny ributtano tutto il loro dissenso verso una società che, da qualsiasi parte la si guardi, è un obiettivo gigantesco e facilissimo da colpire a suon di succhi gastrici, decalitri di alcol ingurgitati per anestetizzarsi, lacrime salatissime e tanto, tantissimo sudore. Un album che è una carrellata sull’orrore giornaliero che si maschera in mille e più modi diversi. Abbiamo il mostro in divisa d’ordinanza, pistola, distintivo e manganello moscio come la cinta di un accappatoio inzuppato di onanismo pigro e di scarsa qualità (l’opener “Bad Apple”, con quel dito puntato che passa rapidamente da monito a monolito: “Officer what is the problem / Can we only know postmortem“, e un sound che pare uscire dalla sala prove degli Atari Teenage Riot, derubati della loro fragorosa elettronica). “Company Culture” è la creatura viscida del patriarcato, che viene affrontato con un piglio melodico, tra rock e pop. Pratiche sessiste, routine maledetta, presa di coscienza e rifiuto di catalogarsi in generi obsoleti. I maschi alfa, scimmie senza makeup, vengono ridicolizzati con un brano ironico ed irruente, ruffiano e rumoroso il giusto: “Big Dick Energy” colpisce dove fa più male – foto sgualcite di lattine di bibite gassate vicino a cazzi mosci – e il boato dell’egocentrismo maschile che viene giù come un castello di carte, andando quasi a coprire il muro di chitarre. Tre brani, tre missili ad altezza uomo. Ma è davvero tutto il disco a suonare così, mantenendosi su livelli medio alti, se non altissimi. Anche quando la componente melodica, senza risultare eccessivamente zuccherosa, prende il sopravvento, come in “No Homo” e in “Nothing Tastes As Good As It Feels”, la verve punk rimane baldanzosa. Le Lambrini Girls riescono a far coesistere le due anime – una ironica, l’altra rissosa – in canzoni dal minutaggio serrato, dove si deve puntare al bersaglio grosso senza tanti giri a vuoto. Non temono di sguazzare nel pantano dell’underground così come non sputano nei buffet di alta classifica e music business corrotto e meccanicamente spietato. Forse è proprio questo il plus dell’album, una miscela perfetta che appaga i gusti di chi è abituato a spaziare senza inutili preconcetti. La produzione di Daniel Fox, bassista dei Gilla Band e produttore emergente del post-punk inglese, rende giustizia al carattere dinamitardo del duo, tenendo arzille le braci di un sound sempre nervoso, pronto a scattare, irrorato di bibite energetiche, caffeina, rabbia repressa e voglia di rivalsa.
Un album autentico, impavido, coraggioso. C’è da sudare, da ballare, da cantare. E spesso, guardandosi dentro, un disco che aiuta a riconoscersi.
(City Slang, 2025)
1. Bad Apple
2. Company Culture
3. Big Dick Energy
4. No Homo
5. Nothing Tastes As Good As It Feels
6. You’re Not From Around Here
7. Scarcity Is Fake
8. Filthy Rich Nepo Baby
9. Special Different
10. Love
11. Cuntology 101