Un alieno a spasso nel tempo, un highlander con il dono dell’immortalità o forse, più prosaicamente, solo un dinosauro sopravvissuto miracolosamente agli impatti di mille meteoriti? Che lo si reputi una sorta di leggenda vivente o piuttosto un fossile incapace di rassegnarsi alla dimensione teca da museo, il nome di Bobby Liebling merita comunque un posto d’onore tra i protagonisti della storia del doom, di cui è inossidabile alfiere e portabandiera da oltre mezzo secolo, alla guida del galeone Pentagram. Versante musicale a parte, in questi cinquant’anni il Nostro non si è peraltro fatto mancare mai nulla anche sul fronte biografico, tra eccessi assortiti, dipendenze varie e problemi con la giustizia, ma, ogni volta che il calcolo delle probabilità e degli imprevisti sembrava adombrare inesorabilmente un’inevitabile fine corsa, puntualmente è arrivata una smentita, alimentando il mito del classico rocker maledetto con il dono della resurrezione dalle proprie ceneri.
E allora rieccolo, tirato a lucido a 71 anni suonati e pronto a ripartire dieci anni dopo l’ultimo full length, Curious Volume, circondato da nuovi compagni di viaggio pronti del pari a coltivare e difendere stoicamente il verbo sabbathiano dagli oltraggi del tempo e dai mutamenti di gusto e sensibilità di un pubblico che, anche solo per mere questioni anagrafiche, è ormai lontanissimo dalle declinazioni settantiane di un genere oggi identificato con coordinate sonore decisamente differenti. Con simili premesse, va da sé che la prima, legittima domanda sia quanto possa suonare anacronistico un approccio così passatista alla materia, ma, al di là di devozioni a sfondo archeologico o figlie di richiami ad eroiche epoche traboccanti di spensierati ricordi adolescenziali, diciamo subito che i Pentagram attuali sono tutto fuorché una pallida ombra della gloria che fu, riuscendo a trasmettere una sorprendente sensazione di freschezza a dispetto di un percorso che non prevede sostanziali colpi di scena o cambi di rotta. Il risultato è che questo Lightning In A Bottle suona paradossalmente “senza tempo” ed è tutto tranne che un trilobite sonoro recuperato da qualche spedizione o catapultato nel Terzo Millennio da un inatteso accidente cosmico. La formula è sempre quella appresa sui banchi della venerabile scuola Black Sabbath (di cui i Nostri, insieme a Saint Vitus e Trouble, sono stati tra i primi e più brillanti studenti), con le bandiere dell’immediatezza e dell’essenzialità come tratto originariamente distintivo di un genere che, con il trascorrere del tempo, ha non di rado imbarcato invece ridondanze ai confini dell’ampollosità. Attenzione però a non utilizzare il termine “doom” in presenza del buon Liebling, da sempre poco entusiasta di una siffatta definizione della sua musica e che insiste, piuttosto, sulla collocazione dei suoi lavori nel grande alveo hard rock. E, in effetti, in questi cinquanta minuti è l’energia, più che la pesantezza, a occupare il centro della scena, accompagnata da un significativo contributo melodico dal sapore spiccatamente blues che rinvia immediatamente alla mistica del viaggio negli spazi sconfinati delle Grandi Pianure del Midwest, meglio se comodamente adagiati sul sedile di un’iconica due ruote a stelle e strisce. Ecco allora una sezione ritmica potente ma soprattutto dinamica (con citazione d’obbligo per il lavoro alle pelli di Henry Vasquez in libera uscita dalla casa madre Saint Vitus) ed ecco il decisivo contributo delle sei corde di Tony Reed, impeccabile sia quando deve accompagnare il flusso narrativo, sia quando fa scendere in campo sua maestà il Riff, ingrediente sempre decisivo e imprescindibile, su queste frequenze pentagrammatiche. Ma la vera notizia, a conti fatti, è lo straordinario stato di forma dell’ugola di Liebling, che, a dispetto degli assalti del tempo, da un lato conserva un’invidiabile carica abrasiva figlia di un clean acido appena teatralizzato e, dall’altro, accompagna autorevolmente i cambi di ritmo fino alle soglie delle semi-ballad. Undici tracce più tre bonus track a rendere ancora più invitante il menu, Lightning In A Bottle è un album che ha il grosso merito di scivolare via senza intoppi e cali di tensione, ma alla lunga soffre un po’ della mancanza di autentiche vette creative, regalando un viaggio che fa della linearità il suo pregio e, contemporaneamente, il suo limite principale. In un simile contesto, conviene accendere il tasto play e lasciarsi trascinare senza attendersi tracce che inchiodino immediatamente all’ascolto, riservando a momenti successivi approcci più specifici ai singoli episodi. Dovendo spendere qualche cents per scommettere sul possibile best of del platter, conviene probabilmente puntare sulle spire blues oscure e lisergiche di “Lady Heroin”, forse non a caso il brano dal minutaggio più sostenuto del lotto (oltre che accorata confessione autobiografica), ma, all’altro capo dello spettro sia stilistico che sul versante della durata, funziona altrettanto bene, ad esempio, una “I’ll Certainly See You In Hell”, scarica di adrenalina pura che alimenta automatici scuotimenti di membra e crani in vista di prevedibili, travolgenti rese live. I palati più nostalgici, invece, possono rivolgersi con fiducia a una “Walk The Sociopath”, intrisa di vapori densi e malsani, mentre i rocker più tradizionalisti apprezzeranno sicuramente le cavalcate di “Start The End” e “Might Just Wanna Be Your Fool” o anche, in alternativa, le strutture massicce e imponenti di “Thundercrest”. Gusti diversi, piatti diversi e, quando la cucina riesce ad accontentare buona parte dei commensali, il locale merita senz’altro di essere consigliato.
Un rientro inatteso, una nuova partenza, una zampata vincente piazzata da un fuoriclasse che riappare ciclicamente per allontanare le ombre di un tramonto in teoria inevitabile, Lightning In A Bottle è un album che non ha la pretesa di riscrivere la storia dell’hard rock e che proprio per questo sfugge con successo alle secche della (molto spesso) stucchevole dimensione-macchina del tempo. L’Età dell’Oro è andata e non può realisticamente tornare e gli antichi fasti resteranno fisiologicamente ineguagliati, ma la sensazione è che i Pentagram abbiano ancora molto da offrire… sicuramente ben più di un’impolverata collezione di trofei e decorazioni da banale esposizione.
(Heavy Psych Sounds, 2025)
1. Live Again
2. In The Panic Room
3. I Spoke To Death
4. Dull Pain
5. Lady Heroin
6. I’ll Certainly See You In Hell
7. Thundercrest
8. Solve The Puzzle
9. Spread Your Wings
10. Lightning In A Bottle
11. Walk The Sociopath
12. Start The End (bonus track)
13. Might Just Wanna Be Your Fool (bonus track)
14. Lady Heroin (rough mix)