I Divus arrivano al loro terzo album, il primo con Subsound Records dopo aver flirtato con successo insieme a Boring Machines per i primi due. L’album registra un passaggio “anomalo” rispetto al loro recente passato. Il sound si sposta infatti verso un approccio meno diretto, che sposa l’oscurità fumosa di paradigmi sonori che possiamo inquadrare come vicini ad un’ambientazione metropolitana fatta di territori disabitati, in locali bui, dove il tempo si è fermato o comunque acquista una diversa concezione. Un immaginario che parte in un ovvio bianco e nero, in netto contrasto con la copertina caleidoscopica, ma che pian piano, con il dilatarsi dei suoni che perdono i riferimenti iniziali, inizia ad assumere forme e colori sgargianti, dando un senso alla cover scelta dal duo.
L’album si caratterizza sin da subito per una serie di scelte stilistiche che riescono a toccare le nostre emozioni più recondite, quelle seppellite dai ricordi. E lo fa raccontandosi attraverso sette momenti non così distanti come si potrebbe essere portati a pensare in partenza, quando ancora non siamo completamente scesi a fondo di un album che ci trascina nelle profondità di un luogo indefinito in cui nulla è come sembra. “Divus 3” è un album che permette realmente di lasciarsi andare, e che lascia fluire il nostro intimo, in un percorso che potrebbe essere di sola andata. Caratterizzato da un sound che avvolge, e che ti trasmette il calore del suo abbraccio, in cui il sax e i synth si completano a vicenda in un gioco di rimandi e di connessioni.
Non c’è rimasto nulla dei Divus che abbiamo conosciuto con i primi due album. O per lo meno non c’è più nulla del mondo che ci hanno raccontato. Loro esistono ancora. Si sono solo spostati in un contesto differente. Dove una nebbia fitta avvolge le ombre indistinte di figure antropomorfe che si muovono laddove i nostri occhi non riescono a mettere a fuoco. In uno spazio indefinito come questo il suono del silenzio rischia di fare rumore, mescolandosi al fastidioso ronzio dei synth di Luciano Lamanna che fanno da sfondo alle sperimentazioni del sax baritono di Luca T. Mai. L’album racconta un mondo che non esiste (ancora) o che non siamo in grado di pensare come reale, e lo fa attraverso una ricerca sonora che sposa momenti di diversa intensità, tutti comunque riconducibili a un disegno collettivo che, forse, inizialmente può apparire poco chiaro, ma che alla distanza risulta netto. L’idea di fondo è che manchi quel crescendo che tutti si aspettano. Il che sposa perfettamente l’idea di una condizione immutabile a cui siamo condannati, e che sentiamo di sottoscrivere in toto. Ma non fraintendetemi, il disco è tutt’altro che statico. Descrive un mondo statico ma lo fa con un movimento circolare che avvolge e seduce.
(Subsound Records, 2025)
1. E1
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3. E3
4. E4
5. F1
6. F2
7. F3