Poco e niente si sa di questa band che è arrivata al debutto discografico a inizio aprile. Si sa che si tratta di un progetto norvegese e vista la qualità delle singole canzoni (spoiler) non sarebbe una sorpresa se in futuro si scoprisse che vi sia coinvolto qualche nome importante della scena di quel paese. Grafica scarnissima anche in copertina, registrazione a bassissima fedeltà (ma si sentono distintamente tutti gli strumenti) e attitudine chiaramente true e senza compromessi. Il black metal proposto dai Robust è grezzissimo, brutale e oltranzista ma presenta numerose sfaccettature che permettono alla proposta musicale di essere molto varia e variegata e, soprattutto, attualissima.
Verrebbe da dividere l’album in due parti, di cui la prima (diciamo i primi sei pezzi) orientati su un black violento che si rifà agli albori della seconda ondata del TNBM e quindi Gorgoroth prima dell’arrivo di Gaahl, soprattutto per quanto riguarda la voce (e si tornerà su questo argomento a breve), oppure Carpathian Forest per l’aspetto più sfrontato, quasi punk/black’n’roll. Gli ultimi tre pezzi, a mio avviso i più interessanti, sono quelli più vari e convincenti e meriteranno un discorso a parte, per quanto, ripeto, stiamo parlando comunque di una qualità media che si mantiene molto alta per tutto il disco. Ad aprire il disco “Form of a Bear”, pezzo interessante e dinamico che a un riff portante con sentori post-punk alterna bridge e passaggi più propriamente black e metal in generale. Ci colpisce subito la voce, di certo adatta alla proposta musicale ma molto acida e che, non me ne vogliano i Robust, in alcuni passaggi può ricordare Paperino quando si arrabbia (mi prendo tutte le responsabilità per questa definizione). Le successive “Enchanter” e “Spell Translation” si rifanno più propriamente al black vecchia scuola e quindi piena fedeltà alla linea dettata da tremolo picking e blast beat. Con “Feather Key” i tempi si fanno lenti e dilatati e si va dalle parti del Burzum più marziale e atmosferico, dove alla plettrata alternata fa da base una batteria che si trascina in stile doom. Va di nuovo sottolineato, con piacere, come la scelta di una registrazione grezzissima non inficia la resa dei singoli strumenti, mixati benissimo tra loro e distinguibilissimi l’uno dall’altro. “Sulphurous Ash”, con una batteria quasi zoppicante e di nuovo lontanamente post-punk, fa da ponte verso i tre pezzi finali di cui si è parlato sopra. “Infinity Boast” è una cavalcata motorheadiana scatenata e divertente dove la voce è caratterizzata da un gran trasporto e capacità interpretativa. “Reconciliation” è forse il miglior episodio dell’esordio dei Robust e, quasi con emozione, soprattutto all’inizio si ritrovano scelte melodiche della chitarra che un maestro come Blackheim aveva portato a manifesto di un certo tipo di intendere la musica estrema. Chiude l’album “Debris”, che come la precedente canzone mostra gran gusto melodico dei Nostri e capacità di variare i pezzi con intelligenza e personalità.
Non mi stancherò mai di dire che il black metal è un genere estremamente vitale e che sembra sempre rimandare a un lontano futuro la sua fine. Nel marasma di uscite alcune, troppe, sono sicuramente evitabili e altre, tante, non fanno che ripetere pedissequamente il canone. Poi, appunto, ci sono band come i Robust che arrivano dal nulla (e su questo qualche ragionevole dubbio va preso in considerazione) e sfornano un disco di grande coerenza, filologicamente corretto e con importante personalità che ci farà seguire con grande interesse e molta attenzione i prossimi passi di questo progetto.
(Ván Records, Terratur Possessions, 2025)
1. Form of a Bear2. Enchanter3. Spell Translation4. Feather key5. Sulphurous Ash6. Infinity Boast7. Reconciliation8. Debris