Heritage, ossia patrimonio, eredità, lascito. Bram Bijlhout, chitarrista dei doomster nederlandesi Officium Triste dal 2007 al 2014, arriva all’esordio discografico su lunga durata del progetto Structure di cui è il mastermind. A suo carico musiche e testi ma da non disdegnare l’elenco dei membri che lo accompagnano, ossia Pim Blankenstein (alle voci proprio negli Officium Triste), il batterista degli Elegy Dirk Bruinenberg e il vocalist Robert Soeterboek (collaboratore di Arjen Lucassen in Ayreon e non solo). L’album vuole essere un contenitore per questo patrimonio di cui sopra, di immagini, storie di famiglia, qualcosa da stringere nei momenti di silenzio. E in questo contenitore va a finire tutto un altro lascito, quello che ha influenzato il Bijlhout musicista e che compone un mosaico di note e rimandi che sembra voler essere un ponte tra vari modi di interpretare il doom death (e non solo) metal, ossia quello più legato al gothic metal inglese, la vague svedese di Katatonia e October Tide e l’esercizio più plumbeo e monolitico che parte dai Saturnus per poi persino arrivare a sfiorare il funeral doom.
Il trait d’union tra sottogeneri e ispirazioni dà l’impressione di essere comunque frammentato in un disco che si lascia scoprire con il tempo. A un primo e distratto ascolto verrebbe da dire che troppo presenti sono le influenze delle band del passato ma è invece piacevole la rivelazione, che appunto si apre dopo ripetuti ascolti, del trasporto, della passione, della sincerità con cui Bijlhout ha composto e suonato questo lavoro. Se la prima parte dell’album sembra ispirarsi al gothic metal (alcuni momenti del secondo brano “What We Have Lost” citano chiaramente gli svolazzi drammatici di Daniel Cavanagh e quel capolavoro che risponde al nome di “A Dying Wish” dei furono Anathema) e ai riff che hanno caratterizzato le uscite, appunto, di Katatonia (fino a Discouraged Ones) e October Tide, diciamo che dal quarto brano “The Sadness Of Everyday Life” la proposta di Structure si fa ben più monolitica e plumbea. Sì, i primi tre brani sono dinamici, lasciano intravedere tanta fantasia ma sembrano non avere un obiettivo chiaro e tendono a presentare forse troppe idee e nemmeno troppo personali. Le cose cambiano nella seconda metà, dove l’oppressiva reiterazione dei riff mostra in pieno la grande passione che contraddistingue questo progetto. Splendida la title-track, emozionante e nostalgica quanto basta nel suo presentare tanto gusto melodico che ben si sposa all’atmosfera del pezzo. Il riff iniziale di “The Feeling Of Confusion” torna a citare i riff della coppia Nyström/Norrman e menzione d’onore va al brano che chiude il disco, “Until The Last Gasp”, che si vorrebbe non finisse mai. La durata del pezzo è di sei minuti e mezzo (troppo breve, troppo) ma le sensazioni che trasmette trasportano l’ascoltatore in un limbo di (scelgo scientemente le seguenti parole) serena e tranquilla commozione. Ottima davvero la scelta di mettere la canzone alla fine di questo viaggio.
Heritage è un album che richiede pazienza, che necessita di abbandonare la frenesia e velocità dei tempi presenti. Solo così si riesce a godere a pieno di quello che riesce a produrre la band che mostra di trovarsi molto più a suo agio quando i ritmi si abbassano e le note si ripetono senza una evidente soluzione di continuità. Dopo l’EP del 2022 e il singolo dell’anno successivo era l’ora per il progetto Structure di distendersi in qualcosa di più composto e, gioco di parole, strutturato. Ottimo esordio, tant’è che quasi restiamo dispiaciuti che le onde emotive prodotte dalle sette canzoni (alcune più, alcune meno), debbano interrompere a un certo punto il loro moto.
(Ardua Music, 2025)
1. Will I Deserve It
2. What We Have Lost
3. Long Before Me
4. The Sadness Of Everyday Life
5. Heritage
6. The Feeling Of Confusion
7. Until The Last Gasp