Nel cuore della bestia, ovvero “storie personali nel mondo della musica bastarda”, è un interessante resoconto sul mondo anarcopunk italiano, fotografato nel suo momento di massimo splendore, a cavallo tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta. Uscito originariamente nel 1996 grazie a Zero in condotta, il testo è stato da poco ristampato da un manipolo di visionari (oltre a Zero in condotta, Silentes, More Nocturne Books, Ediciones Bruno Alpini, Dethector, e Collettivo Stella Nera) che l’hanno reso nuovamente disponibile. Noi l’abbiamo scoperto da poco, per non dire pochissimo tempo, e solo grazie ad un amico storico con cui ho riallacciato i rapporti, andati a sfilacciarsi negli anni, data la distanza fisica che ci ha separato.
A parlare, in quello che deve essere visto in ogni modo, tranne che come un’enciclopedia sul punk, sono, in partenza, Stefano Giaccone (Franti e Kina, tra gli altri) e Marco Pandin (Rockgarage, ma anche A/Rivista Anarchica e Umanità Nova), che introducono, da un punto di vista storico e sociale, il fenomeno. A seguire un ampio e variegato contributo da parte di tutti coloro che, quegli anni, li hanno vissuti da protagonisti. Testi di canzoni, volantini, frammenti di interviste, e ritagli di fanzine, raccolti in un patchwork apparentemente caotico di opinioni, proclami e provocazioni verbali, ad opera di Kina, Detonazione, Eu’s Arse, Raf Punk, Stigmathe, Contrazione, dei miei concittadini Disopia e Fall Out, e poI, ancora, Indigesti, Franti, Impact, Underage, Nabat, Chelsea Hotel, Raw Power, Wretched, Stalag 17, Negazione, Peggio Punx, Upset Noise, Infezione, Rivolta dell’odio, CCM, I refuse it! ma anche realtà come TVOR, Punkaminazione, o altre fanzine sparse sul territorio. Idee messe nero su bianco, in quelli che oggi sarebbero post online o comunicati stampa, e che, al tempo, erano volantini ciclostilati in proprio, e affissi la notte, in avventurose spedizioni armati di secchio, colla liquida e pennello. Volantini rigorosamente affissi dopo aver strappato quelli del fronte della gioventù, o al limite incollati sopra.
Che cosa resta oggi di quel tempo? Ognuno di noi, tra quelli che hanno attraversato quegli anni realmente furiosi, finirà per fornire una risposta sempre diversa, come diverse erano le anime che hanno caratterizzato quel fermento che, ancora oggi, riesce (anche se a fatica) a scorgere i frutti del proprio “sbattimento”. Per come la vedo io, leggere e rileggere (una sola lettura non è sufficiente, data la mole di concetti su cui riflettere) Nel cuore della bestia è la strada più semplice e immediata per rivedere e ricalibrare, a distanza, quello che quegli anni hanno rappresentato, in modo da capire che cosa ha funzionato e che cosa non è andato. Ovviamente non in funzione di una riproposizione odierna o futura, ma da inquadrare almeno come un tentativo per far pace con i nostri rimpianti. Se poi, le nuove generazioni a cui affidiamo queste parole, vorranno seguire la strada tracciata, non credo che nessuno avrà l’ardire di opporsi.
Dal momento che sono davvero molteplici le sollecitazioni che il testo ci propone, occorre contestualizzare il tutto da un punto di vista temporale, altrimenti rischiamo di cadere ancor prima di aver iniziato ad addentrarci nei meandri di un viaggio quanto mai necessario, soprattutto per chi, quelle esperienze non le ha vissute in tempo reale. Eravamo in un contesto storico e sociale fatto di lotta politica. Le strade piangevano sangue ogni giorno, in un conflitto fratricida che vedeva i più giovani cadere costantemente sotto i colpi dello stato, prontissimo a soffiare sul fuoco della rivolta, in modo da eliminare tutti coloro che avrebbero potuto rappresentare un problema per i propri interessi. Lotta politica prima, ed eroina a seguire. Tutto previsto, tutto già scritto? Domanda che meriterebbe un approfondimento che non possiamo pensare di affrontare in questa sede, in questo momento, ma che nessuno ci vieta di tornare ad approfondire in futuro, sempre qui, sul Canto del Cigno. L’avvento del punk in Italia ha dato voce e speranza a tutti coloro che, come dice Marco Pandin, cercavano di “inventarsi altre strade per crescere che non fossero il grigio della mediocrità del nordest e il nero del non futuro”, e che hanno visto il punk “accendere sotto i loro piedi la miccia del coraggio.” Era una generazione strana, che viveva in quel limbo indefinito caratterizzato dal bisogno di esser parte di qualcosa, ma al tempo stesso scossa dall’idea di volersi chiamare insistentemente fuori da tutto quanto.
Molto del testo ruota intorno alla dicotomia tra anarchismo e punk. Sulla possibilità di conciliare le due cose. Sulle distanze e sulle affinità. Su quello che questa dinamica ha rappresentato, concretamente, sul momento, e su cosa ci siamo portati dietro noi, a distanza. Tematiche che consideriamo attualissime, e che vorremmo riuscire a condividere con tutti coloro che sono nati nei decenni in cui abbiamo fatto parte di un mondo musicale, e antagonista, che ci ha reso le persone che siamo oggi, nel bene e nel male. Il nostro era un mondo spersonalizzante, in cui la televisione era la “cattiva maestra”, l’esperimento sociale che ha dato poi il via al virus chiamato internet, che non fatichiamo ad identificare come l’eroina degli anni Duemila, il metodo che, proprio come l’eroina avrebbe dovuto aprirci le porte della percezione, e che invece ci ha reso schiavi, automatizzandoci pensieri e gestualità, esattamente come i tossicodipendenti di allora. Si tratta di quello che nel testo viene indicato come l’anestetizzante appiattimento cybernetico. In un contesto di questa portata il punk venne individuato come l’unico antidoto in grado di portare verso la resistenza politica a quello stato di cose.
Punk non come estetica ma come atteggiamento, come ideale. In un approccio alla vita libero. Chiaro che oggi, ancor più che allora, la componente legata al dress code, deve essere depurata da ogni significato rivoluzionario. Nel 2025 non ha alcun senso agghindarsi come si faceva nel 1985. Sono passati quarant’anni. Possiamo pensare di essere punk anche oggi, ma solo a livello di testa. La trasgressione estetica è morta, privata del suo elemento di rottura sociale. Oggi le creste sono innocue. Non fanno né male né paura. Al limite, ridere. La trasformazione odierna deve essere un mutazione a livello di idee. Se manca questa, manca tutto. È l’uomo che si deve trasformare in prima istanza, e poi, a seguire, modificare il resto. La cosa che fa veramente paura nel 2025, e lo dice chiaramente nel testo Stefano Giaccone, è che oggi “quelli che in questo paese hanno ancora qualcosa da dire, e lo dicono in un certo modo, non sono certo i diciottenni; e questo è molto grave perché vuol dire che non si è stratificato niente”. Oggi, noi over 50, siamo consapevoli di aver fatto un buco nell’acqua se guardiamo a ciò che siamo riusciti a tramandare ai nostri figli, salvo, ovviamente, le doverose eccezioni. È come se avessimo perso la voglia di essere felici, come se ci fossimo, a nostra volta, e nuovamente, appiattiti. Come in un reset, a cui è necessaria una nuova ondata punk per ripartire, ancora una volta da capo.
Uno dei grandi quesiti, al tempo irrisolti, ruotava intorno all’idea del concerto, a come approcciarsi ai live. Se cioè si dovesse vederli come mere esecuzioni musicali, o se invece (come penso io) dovessero essere intesi come momenti di aggregazione, indipendentemente da chi suonasse. Non è stato quasi mai mio il pensiero di andare a un concerto dopo aver saputo la line-up. Ero dell’idea che si dovesse andare comunque, a prescindere dalla proposta. Non era quindi importante cosa avremmo ascoltato, ma ciò che avremmo dovuto leggere in quell’esibizione, il messaggio che si voleva veicolare tramite il concerto. In tutto questo il punk, in modo particolare, andava a creare quel cortocircuito necessario per demolire lo stato delle cose. Venivano stravolti i ruoli rigidi che decretavano la separazione tra pubblico e musicisti. Il punk non era (ancora) un genere musicale. È un po’ quello che fa il Putan Club oggi nel momento in cui riscrive le regole del suo spettacolo. Non sai mai se sia il Putan Club ad essere sceso (fisicamente) in mezzo alla gente, o se siamo gli spettatori a salire sul palco insieme a loro.
Le contraddizioni furono alla base dei primi momenti di crisi all’interno delle varie realtà, all’interno di tutti quei raggruppamenti locali che qualcuno, al tempo, con un innegabile colpo di genio, chiamo “città stato”. Contraddizioni che andarono incontro ad un isterismo sporcato di intolleranza che rese l’aria praticamente irrespirabile. Non andava più bene niente e nessuno. Alcuni erano poco impegnati politicamente, altri non cantavano in italiano, altri non erano abbastanza punk, altri troppo nichilisti, altri erano dei venduti, altri volevano troppi soldi. Una Babele ingestibile, in cui c’era sempre qualcuno che era più punk di te. In altre parole, l’inizio della fine.
“non far domande, non sentire bugie e vivrai nella comodità di un paradiso per idioti. sei già morto perché lasci che tutto succeda senza combattere. tu sei già morto. con le discussioni che non finiscono mai su cosa è giusto e cosa è sbagliato tu sei già morto.” [Crass, da “You’re already dead”, ed. Crass Records 1984]
Trovate Nel cuore della bestia in free download nello spazio apposito dedicato al libro sul sito di comunità anarchiche http://www.anarca-bolo.ch. Anche perché il libro, come riportano le note in chiusura, è da considerarsi come un “prodotto artigianale non destinato alla diffusione commerciale nei negozi, non in vendita, offerta libera e responsabile”. Che aspettate?