Partendo dalla contrapposizione tra il nome scelto – che ovviamente riprende l’opera filosofica di Friedrich Nietzsche – e un sound, il deathcore, che poco concede in termini di ariosità, ma soprattutto un concept lirico che, più o meno, afferma quanto segue “tutto il disco è uno scavo ispirato all’horror nella bipolarità del miglioramento personale e della guarigione con le inclinazioni più malevole dell’umanità verso il tumulto, l’ansia e la vendetta” (questi hanno trovato il 3 x 2 quando distribuivano la gioia di vivere), dal Maryland – terra sempre ricca di disagiati terroristi musicali – tornano i Thus Spoke Zarathustra con quello che è, di fatto, il loro primo full length (il precedente lo vedo più come un EP).
Andy Reynolds, il simpatico ometto al comando di questo gruppo, ha scritto un album che è un terremoto di incredibile potenza. In soli trenta minuti prende tutto lo scibile ascrivibile al deathcore, assembla canzoni che sono dei missili ad altezza uomo e non lascia scampo a nessuno. Con la particolarità di avere tre chitarristi in seno alla band e una voce, quella di Reynolds, molto versatile (passa con estrema disinvoltura dallo scream hardcore al growl death, dal lamento suino del brutal a clean vocals dotate di un senso della melodia che non va mai a depotenziare i brani), i pezzi di questo disco sono tutti delle piccole matriosche dentro le quali trovare davvero di tutto. La produzione di Mychal Soto è ottima, il sound risulta pulitissimo – ma mai fastidiosamente asettico o con la puzza sotto al naso, roba che spesso accade con le nuove presunte star del death/metalcore – dando alle tracce una marcia in più. Come se, diciamocelo, ne avessero davvero bisogno. Sono certo che anche nelle versioni demo, quelle raw, suonerebbero ugualmente convincenti e devastanti. La cosa bella di questo album – a parte il titolo che è una mezza genialata – è che anche in minutaggi così serrati, non c’è mai modo di annoiarsi perché i clichè del genere vengono sistematicamente sabotati da variazioni sul tema portante, spesso agli antipodi, creando così una costante sensazione di smarrimento consapevole.
Durante l’ascolto le influenze della band saltano fuori, senza che questi penalizzino il voto finale; se cito Trivium, Bullet For My Valentine, Avenged Sevenfold, At The Gates, Acacia Strain, Ingested, Misery Index, non abbiate timore, tutto avrà un senso una volta ascoltato il disco. E quando si pensa di aver capito l’album, ecco che “Bereft Of Light”, il brano più lungo, quello più prog del lotto, con aperture al black, va a riportarci allo smarrimento di cui sopra. Che però lascia aperto a nuovi – ancora??? – scenari possibili per Reynolds e soci. La curiosità dovrà fare i conti con la pazienza; in attesa di un nuovo album, I’m Done With Self Care, It’s Time For Others’ Harm girerà spesso nello stereo di casa mia.
(Prosthetic Records, 2025)
1. G.G.O.
2. I Can’t Save You (Feat. Matt McDougle Of Boundaries)
3. Gage Lanza 2 : Return Of The Red Hammer
4. I Didn’t Believe In Magic Till’ My Dog Turned Into A Snake (Feat. Nick Chance)
5. The Final Blow Will Bring Blood
6. Santosha (Feat. Cameron Argon Of Disfiguring The Goddess)
7. All I Fell Is Cold
8. The Difference Between You And Me, Is I Never Got Caught
9. Mithrandir
10. Bereft Of Light