Ebbene sì, lo ammetto, non ho mai avuto un buon rapporto con gli split album e, coerentemente, cerco sempre di tenermi lontano da eventuali proposte di recensione in arrivo in redazione, evitando così che il mio malumore si traduca in (pre)giudizi in grado di alterare anche solo ipoteticamente la necessaria obiettività. Il mio personale “rimprovero” agli split è che la convocazione di più band allo stesso tavolo finisca spesso inevitabilmente per alterare il flusso narrativo che, a parere di chi scrive, è una delle componenti fondamentali per entrare in sintonia con un album. Sull’altro piatto della bilancia, o come eccezione che conferma la regola, è anche vero che a volte uno split può essere un’interessante vetrina per far conoscere moniker ignoti che si accompagnino a nomi devotamente venerati e, per chi scrive, questo è stato il caso degli svizzeri Zatokrev, incrociati nel 2018 in occasione della collaborazione con i (divini) Minsk e, nella circostanza, decisamente all’altezza dei maestri di Peoria.
Partiti da orizzonti hardcore discretamente standard, con l’esordio omonimo e il sophomore Bury The Ashes a scrivere pagine non disprezzabili ma tutto sommato neanche imprescindibili per la storia del genere, il combo di Basilea ha ingranato marce decisamente superiori nel 2012 con The Bat, The Wheel And A Long Road To Nowhere e, ancora di più, tre anni dopo grazie all’ottimo Silk Spiders Underwater…, dove all’originaria miscela a base -core si sono aggiunti spunti sludge, post-metal e doom, segnalando una band in potenziale rampa di lancio per il definitivo decollo. Purtroppo, però, dopo il citato cimento con i Minsk, dei Nostri si erano quasi completamente perse le tracce, in un settennato di silenzio che non lasciava presagire nulla di buono e che invece, fortunatamente, viene interrotto con un lavoro che, lo diciamo in premessa, si presenta con tutti i titoli in regola per riscuotere il credito lasciato in sospeso e certificare l’ingresso del quartetto nel ristretto novero delle eccellenze. Materia in contorsione e decomposizione, atmosfere plumbee e malsane, lampi sinistri che illuminano obliquamente la scena, improvvisi squarci lirici che sospendono temporaneamente l’incalzare del ritmo, gli ingredienti di questo …Bring Mirrors To The Surface sono apparentemente ascrivibili all’arsenale classico (e in molti casi un po’ bolso e trito) di chi decida di avventurarsi su queste frequenze, ma agli Zatokrev va riconosciuto il grandissimo merito da un lato di non cercare l’originalità a tutti i costi e dall’altro di riuscire a riecheggiare i giganti, dai Neurosis ai Cult of Luna passando per Unsane e YOB, senza appiattirsi su nessun modello e, anzi, creando coordinate artistiche scaldate dal sacro fuoco della personalità. A conti fatti, il tratto caratteristico del platter è l’imprevedibilità, al punto che, anche dopo diversi ascolti, praticamente tutte le tracce promettono (o minacciano?) esiti diversi da quelli che sembravano acquisiti, per una resa che, fatalmente, ostacola la fruibilità immediata consigliando al contrario immersioni totali e prolungate. Alla voce “avvertenze”, peraltro, è bene segnalare che ci troviamo al cospetto di un lavoro impegnativo anche per la chilometricità dell’insieme, con una durata complessiva che sfonda il muro dell’ora e diversi episodi che varcano o si aggirano intorno alla soglia dei dieci minuti, ma, una volta intrapreso il viaggio, mai, nemmeno per un attimo, si avverte una sensazione di stanchezza e, anzi, cresce all’opposto una sorta di abbandono che diventa totale e infrange le catene spazio/temporali. Ad aggiungere ulteriori frecce all’arco provvedono le grandi prove individuali dei componenti della line-up, a cominciare dal basso di Lucas Löw e dalla batteria di David Burger, che articolano una sezione ritmica granitica e potente, passando per le sei corde di Frederyk Rotter e Steffen Kunkel, impeccabili sia in sede di scrittura delle trame sia quando si tratti di strapparle, per finire con un comparto vocale magistralmente presidiato dallo stesso Rotter e da un manipolo di ospiti perfettamente calati nella parte. Che il percorso tracciato abbia le stimmate della poliedricità e riservi sorprese ad ogni piè sospinto, è chiarito abbondantemente dal trittico iniziale, con l’opener “Red Storm”, che celebra i fasti di un doom oscuro iniettato di minacciosi vapori lovecraftiani, la successiva “Blood”, che intreccia rotte prog e post modulando consistenti apporti melodici su cui si stampano gli incantevoli gorgheggi eterei di Ines Brodbeck e la tormentata “The Only Voice”, aperta da una tellurica sfuriata black/hardcore che sfocia su un altopiano dominato da un ritmo incalzante. La componente visionaria dell’ispirazione mette a segno un punto importante con le spire prima maestose, poi liquide e infine quasi cosmico/contemplative di “Unwinding Spirits”, dove si segnala il contributo di Manuel Gagneux, mastermind dei connazionali Zeal & Ardor. Detto di una “Faint” che ribadisce il legame della band con l’energia dissonate e aggressiva degli esordi, sembra che il caos e gli acuminati strappi black debbano essere la cifra stilistica anche di “Changes”, ma, all’improvviso, la tempesta si placa e il brano vira verso sconfinati lidi post- dai tratti cinematografici, candidandosi (con buona autorevolezza e fondati motivi, a parere di chi scrive…) al ruolo di best of dell’intera compagnia. Dopo una “Pearl Eyes” che azzarda con esiti tutt’altro che disprezzabili una convincente escursione in territori depressive rock, il gran finale è affidato al brano dal minutaggio più sostenuto del lotto, “Deep Dark Turns Green”, dove si rinnova il magico incontro del 2018 con i Minsk, stavolta in forma di (robusta) delegazione composta da Christopher Bennett, Zachary Livingston e Aaron Austin. Il risultato è una suite dal grande respiro space, che celebra rapimenti estatici e proietta visioni in cui inquietudine e serenità condividono il proscenio prima di un trasognato finale in dissolvenza.
Un ritorno sulle scene sontuosamente apparecchiato che riannoda i fili con un passato che aveva lasciato intuire grandi potenzialità, un viaggio che compensa ampiamente l’apparente fatica con una straordinaria profondità di campo e una non meno coinvolgente varietà di soluzioni stilistiche e sonore, …Bring Mirrors To The Surface è un album in grado di solleticare palati pentagrammaticamente disposti a correre rischi mettendo in discussione consolidate ortodossie. Se sette anni di silenzio sono stati il prezzo da pagare per regalare ascolti di questa qualità, gli Zatokrev li hanno spesi non solo con cognizione di causa, ma nel miglior modo possibile.
(Pelagic Records, 2025)
1. Red Storm
2. Blood
3. The Only Voice
4. Unwinding Spirits
5. Faint
6. Changes
7. Pearl Eyes
8. Deep Dark Turns Green