“Band clamorosamente sottovalutata”, “Meriterebbero maggiore visibilità”, “A quando la consacrazione definitiva?”… Nel mare magno di recensioni, post, messaggi e commenti che affollano l’etere pentagrammatico, è praticamente inevitabile imbattersi in sentenze che distillano in poche parole il rammarico per il mancato riconoscimento di una qualità che si presume di lapalissiana evidenza e che invece rimane misconosciuta, ma per quanto siffatti aforismi siano animati dalle migliori intenzioni, il risultato è che molto spesso si finisce per attribuirli a devozioni da fan privi della necessaria lucidità e travolti da entusiasmi a prescindere. Con queste premesse, personalmente li ho sempre considerati una sorta di jolly da spendere con la massima accortezza e parsimonia ed è con questo spirito che, convocati gli arbitri Gennaro Olivieri e Guido Pancaldi e, in attesa del loro celeberrimo “Attention! Trois, deux, un…” (la citazione settantiana è ovviamente e assolutamente voluta), me li gioco per un album e una band capace di regalare l’ennesima perla di una discografia rimasta finora del tutto immeritatamente confinata in una dimensione di nicchia a dispetto di episodi sempre a fuoco e ispirati.
Stiamo parlando dei tricolori Giöbia, non nuovi all’approdo sulle nostre pagine e già in passato vivamente consigliati nonostante il metal in senso stretto sia dispensato in dosi poco più che omeopatiche, nei loro lavori. Partito da prospettive sixties con l’incontro tra garage rock e psichedelia acida a fornire carburante per viaggi lisergicamente apparecchiati, il quartetto milanese ha gradualmente ampliato negli anni i propri orizzonti sonori, a partire dalla grande scuola prog degli anni Settanta per approdare a suggestioni space, krautrock ed electro. In questo percorso di crescita, i Nostri hanno avuto il grosso merito di evitare qualsivoglia deriva autoreferenziale, tenendosi a più che debita distanza dal rischio cerebralità e non rinunciando mai a tenere l’asticella della fruibilità ad un’altezza assolutamente praticabile anche per eventuali viaggiatori occasionali non del tutto addetti ai lavori. Tra echi floydiani, lontane suggestioni The Doors, richiami ai Tangerine Dream e un’attitudine cinematografica che strizzava l’occhio alla “dimensione” soundtrack, li avevamo lasciati due anni fa alle prese con l’ottimo Acid Disorder e li ritroviamo oggi con questo X-ÆON, autorevolissimo candidato al ruolo di vertice artistico della loro intera carriera. Ancora una volta, ai Giöbia riesce l’impresa di apprestare un viaggio che coinvolge corpo e mente, in una sorta di ideale incontro tra Kerouac e Hofmann, con l’aggiunta di una visionarietà che altera ulteriormente le percezioni spazio-temporali ma senza eccedere in astrazioni troppo spinte. Il risultato è un album che può permettersi di proiettare immagini dall’orizzonte degli eventi e, contemporaneamente, mantenere saldissime radici nella tradizione rock, il tutto impreziosito da una sensazione di freschezza e libertà creativa che rimanda alle migliori jam session d’autore. Considerato il moniker, che rimanda a un’antica festa pagana piemontese/lombarda di fine gennaio in cui fantocci di paglia vestiti di stracci vengono bruciati per propiziare i raccolti della stagione incipiente, non può mancare anche una componente ritualistica e sciamanica e anche in questo caso è impossibile non lodare il senso di equilibrio nel maneggiarne i dosaggi, con esiti che si tengono prudentemente lontani dall’esoterismo tout court conservandone però tracce tutt’altro che trascurabili. A completare il quadro con l’ennesima nota di merito contribuisce anche la scelta di puntare in larghissima parte sulla strumentalità pura, su cui il cantato ha buon gioco a stamparsi nelle sue rare ma sempre opportunamente centellinate incursioni. Quattro tracce più una monumentale suite divisa a sua volta in quattro “stanze”, X-ÆON esordisce con un brano che strappa subito applausi ma che ha solo in parte i tratti del biglietto da visita del platter, sfoderando una sorprendente andatura cadenzata dal vago sapore doom su cui la sei corde di Stefano ‘Bazu’ Basurto stampa memorabili ricami hard rock, ma chi auspicasse/si illudesse/temesse una svolta metal deve fare subito i conti con la successiva “Fractal Haze”, trascinante cavalcata electro dove i synth di Melissa Crema duettano con la sezione ritmica distillando una pozione ipnoticamente straniante, con annesso teletrasporto in dimensioni parallele. Terza traccia e terzo cambio di fondale in agguato, visto che “The Death of the Crows” decide di solcare acque quasi indie e alternative, nella circostanza con la riuscita complicità di un cantato che non sfigurerebbe nelle enciclopedie d’Oltremanica del genere. Raggiunte a questo punto vette già ragguardevoli, i Giöbia decidono di piazzare un Ottomila musicale con la strepitosa “1976”, dedicata all’ultima edizione del Festival del Parco Lambro a Milano, uno degli ultimi vagiti di una controcultura che sapeva coniugare musica, rabbia, politica e aspirazione a una società diversa, prima che la melassa gelatinosa della Milano da Bere di ottantiana memoria stendesse sulla città il suo velo plumbeo di paillettes e lustrini artificiali. Una base blues, grandi aperture space, qualche circolare rintocco post-rock, un raffinato e contemporaneamente trascinante lavoro di quattro e sei corde (qui citazione d’obbligo per le linee di basso di Paolo ‘Detrji’ Basurto) e la ciliegina sulla torta del geniale ricorso a una voce narrante fuori campo in modalità trasmissione radio, tutto concorre a mettere in moto una macchina del tempo per essere catapultati ai piedi da un palco su cui risuoni l’antico mantra “Tonight we forget the fight, tomorrow we’ll fight again”. Dopo un simile totem sonoro, non era facile indovinare la scelta giusta per pilotare senza strappi il rientro a terra, ma ancora una volta il quartetto non sbaglia formula e soluzione, puntando su un mini-concept articolato in quattro momenti e riunito sotto l’evocativo titolo “La Mort de la Terre”. Così, dopo le escursioni in territori prog di classica declinazione seventies (“Les Ferromagnétaux”) o in precario equilibrio tra calma e inquietudine (“Vers Les Terres Rouges”), la coppia che chiude le danze apparecchia una sorta di dissolvenza, che immaginiamo essere tutto fuorché la promessa di un destino rassicurante per una specie capace di nefandezze inenarrabili verso qualsiasi essere vivente (e non) abbia incontrato sulla propria strada.
Il grande Rock delle decadi dei pionieri che osa ancora alzarsi in volo senza alcun timore di suonare anacronistico o fuori tempo massimo, elettronica e psichedelia che intrecciano fili senza intenti autocelebrativi, luci, colori e ombre che popolano atmosfere in caleidoscopica combinazione e mutazione, X-ÆON è un album che entra a vele spiegate nel novero delle eccellenze di questo 2025, al di sopra e oltre le collocazioni di genere. Per chi ami viaggiare tra Cosmo e Realtà, ancora una volta la navicella dei Giöbia è pronta a un clamoroso decollo, “Attention! Trois, deux, un…”.
(Heavy Psych Sounds, 2025)
1. Voodoo Experience
2. Fractal Haze
3. The Death of the Crows
4. 1976
5. La Mort de la Terre
* Vers les Terres-Rouges
* Les Ferromagnétaux
* L’Eau Fugitive
* Dans la Nuit Éternelle