
“Non li ho visti arrivare”… così, parafrasando un aforisma che è entrato nel linguaggio comune per definire il senso di sorpresa di fronte a eventi e fenomeni di cui pure si sarebbero dovuti cogliere gli evidenti segni premonitori, l’umile recensore prova a darsi (e a offrire) una spiegazione per non aver individuato a tempo debito i chiarissimi indizi che preannunciavano la nascita di una supernova nei quadranti a spiccata prevalenza post- della volta celeste metal. Come parziale attenuante, è anche vero che il torrenziale flusso di promo in pressoché quotidiano arrivo sui tavoli della redazione comporta inevitabilmente qualche svista o distrazione, ma, fortunatamente, classe e qualità hanno la testa dura e concedono delle seconde occasioni, consentendo anche il recupero di ciò che si era colpevolmente perso.
È questo sicuramente il caso dei norvegesi Monograf, che tornano sulle scene a sei anni di distanza da un esordio che all’epoca è purtroppo sfuggito ai nostri radar e che invitiamo caldissimamente a riscoprire per apprezzare tutte le tappe di un percorso che promette approdi clamorosi. Era il 2019 e l’album in questione, Nadir, mostrava una band già in straordinario stato di grazia creativa, capace di tessere eleganti e raffinate trame post-rock impreziosite da innesti prog e con più di un occhio rivolto alla tradizione folk scandinava, sottolineato da un utilizzo di violino e nyckelharpa (strumento a corde di origine nordica strettamente imparentato con la ghironda) sempre inseriti nel corpo vivo dei brani e mai chiamati in causa come orpello ornamentale. Se a questo aggiungiamo una vena liturgico/esoterica a pulsare sottotraccia arricchendo ulteriormente la tavolozza dei colori, il risultato è un album che ha costretto chi scrive a riaprire la top 10 di cinque anni fa per tributargli i dovuti onori (provare per credere le stratosferiche “The Golden Calf” e “Horde”). Con simili premesse, l’unico dubbio era se un bagliore così accecante fosse figlio di una cometa in fortunato e casuale transito o se ci trovassimo al cospetto di una stella fissa e la risposta, puntuale, prepotente e inequivocabile, arriva con questo Occultation, che si permette il lusso di spostare ancora più in là le colonne d’Ercole già più che coraggiosamente piantate dall’illustre predecessore. Rispetto alle strutture finemente cesellate del debut, infatti, i Nostri scelgono stavolta sia di alzare i giri motore, sia di puntare su impalcature sonore più massicce, senza peraltro rinunciare mai a un approccio ricercato e sognante che invita al totale abbandono. Siamo quindi sostanzialmente all’interno di un perimetro post-metal, ma con una messe tale di spunti e divagazioni finanche alle soglie dell’eresia, che una classificazione troppo spinta rischia di far perdere dettagli e sfumature che sono parte essenziale, nell’economia del platter. Ecco allora da un lato il post liquido di marca Isis e quello cinematografico di scuola Cult of Luna (con qualche appena accennata escursione nei territori Amenra ad alto tasso di abrasione), ma, dall’altra parte, ecco anche una convincente attitudine doom e una straordinaria sensibilità melodica che agevola la fruibilità dell’insieme senza arretrare di un solo passo sul versante della profondità di campo. Un capitolo a parte va dedicato al lavoro della coppia nyckelharpa/violino (divinamente maneggiati rispettivamente da Erik Normann Sannes Aanonsen e Sunniva Molvær Ihlhaug), dietro cui si coglie una riuscita (a parere di chi scrive) evoluzione rispetto all’esordio, con gli elementi folk tout court in parziale arretramento a vantaggio di una resa che si inerpica su tornanti gothic d’autore lontanissimi da quella declinazione stucchevolmente dolciastra che ha contribuito a minarne la reputazione presso molti cenacoli metal. Non meno significativamente, anche il comparto vocale, presidiato dallo stesso Aanonsen, fa registrare importanti elementi di novità, incrementando il ricorso a uno scream sabbioso che marca le distanze rispetto al cantato prevalentemente in clean di Nadir. Detto che la componente strumentale riveste comunque ancora un ruolo preponderante, confesso di aver avuto qualche problema ad entrare in sintonia con un cantato apparentemente uniforme e monocorde, ma, col crescere degli ascolti, ci si rende conto che anche questa scelta centra in pieno l’obiettivo, inserendo alla perfezione la voce nel flusso sonoro con il preciso intento di accompagnarlo e non di strapparlo e approdando così, pur su scala e piani diversi, allo stesso esito “armonico” esaltato nel predecessore da una coralità dai tratti non di rado quasi orchestrali. Cinque tracce per poco meno di quaranta minuti complessivi di viaggio, Occultation apre le danze con “The Prophet”, opener che chiarisce subito i contorni del (relativamente) nuovo corso sfoderando una cadenzata andatura doom avvolta da vapori oscuri e vagamente minacciosi, ma, quando l’esito della traccia appare segnato verso lidi claustrofobicamente sotterranei, il violino e una magistrale gestione dei meccanismi di stop and go smentiscono le previsioni creando uno stato di trance dai toni quasi mistici. I toni narrativi declinati circolarmente e in crescendo nella classica modalità post- prendono il sopravvento nella successiva “Cripplegate”, attraversata da una corrente cosmic/space in sottofondo, ma anche stavolta non manca il fulmen in clausula, affidato alle pelli di Erlend Markussen Kilane che, dialogando con i synth dell’ospite Ingvill Trydal, preparano un finale voluttuosamente decadente (qualcuno ha detto My Dying Bride?). Dopo il breve intermezzo acustico “Ashes”, che rallenta i ritmi e salda il debito con la componente folk, i norvegesi riprendono immediatamente il volo con il pezzo più accidentato della compagnia, “Carrion Seller” (qui davvero l’ombra della creatura di Colin H. van Eeckhout si allunga sulla scena… ed è un’ottima notizia), ma i tentacoli urticanti che sono il marchio di fabbrica della lezione Amenra non restano mai da soli sulla scena, controbilanciati da un potente afflato doom e da divagazioni di marca prog dove la sezione ritmica e le tastiere scrivono una pagina da applausi. Vista la qualità messa in campo, già a questo punto il viaggio varrebbe abbondantemente il prezzo del biglietto, ma all’appello manca ancora la probabile perla del lotto, nei panni della monumentale suite che chiude la tracklist. È praticamente impossibile, oltre che pericolosamente riduttivo, cercare di tradurre in parole un brano nato per essere il distillato aureo e quasi il manifesto artistico di un intero genere, l’unica concessione verbale che ci sentiamo di proporre è azzardare un nobile e augusto paragone, “Occultation” sta alla carriera dei Monograf come “Dark City, Dead Man” sta a quella dei Cult of Luna: si scrive pietra miliare, si legge capolavoro.
Visioni che scompongono i colori, estasi psichedeliche, eleganti malinconie, muscoli in tensione e una vena melodica che, in ultima istanza, riconduce tutto ad unità in cambio di un’immersione totale e incondizionata, Occultation è il clamoroso ritorno sulle scene di una band che ha evidentemente deciso di saltare a piè pari tutti i passaggi intermedi per approdare direttamente e dimorare stabilmente in una dimensione di eccellenza. E siamo solo alla pagina due, nella discografia dei Monograf…
(Overhead Productions, 2025)
1. The Prophet
2. Cripplegate
3. Ashes
4. Carrion Seller
5. Occultation


