
I NYOS nascono un decennio fa, nel momento in cui Tom Brooke lascia Leeds, UK, e decide di stabilirsi a Jyväskylä, in Finlandia, dove incontra Tuomas Kainulainen. Tra i due nasce quasi subito l’idea di mettere insieme il proprio bagaglio di esperienze in ambito musicale, con l’obiettivo dichiarato, sin da subito, di andare a sondare tutti quei territori in cui il suono assume forme sempre cangianti, dove i punti di riferimento sono pochi e spesso seminascosti agli occhi dei più. Va in questa direzione anche la scelta del nome da dare al progetto, che ricade su NYOS, vale a dire il lago camerunense tristemente noto, in cui, a metà anni Ottanta, si consumò una tragedia epocale che causò la morte di 1.746 persone e 3.500 capi di bestiame.
Growl è il settimo album che i due realizzano. Album che continua nel solco della sperimentazione e della ricerca sonora, in un approccio che solo guardandolo superficialmente possiamo pensare come autoreferenziale, e per certi versi, addirittura inaccessibile. Tutt’altro. Growl è infatti l’ennesimo tassello di un percorso a nostro avviso molto più semplice e lineare di quanto si possa essere portati a pensare. Si tratta, questo è innegabile, di un discorso (il loro) che non ammette compromessi e che non ammette mezze misure. Su questo i due non transigono, in nome di un approccio quasi integralista che porta alla dicotomica scelta tra amore e odio. Noi, che vorremmo stare nel mezzo, supportati da un’idea di base che ci piace, ma che alla lunga rischia di annoiare, alla fine scegliamo di stare al loro fianco, non fosse altro che per il fatto di voler premiare la loro fine capacità di reinventarsi, costantemente, sia all’interno del disco, che guardando ad un disegno più ampio, che comprende tutta la loro discografia. È vero che a volte anche le label più attente prendono delle cantonate, ma, alla fine, se li ha scelti un’etichetta intrigante come la Pelagic proprio male non dovrebbero essere. Growl è un album che guarda sostanzialmente alla creatività, ma lo fa senza eccedere in autoerotismi di maniera che non portano da nessuna parte. Un album che forse può risultare (per alcuni) troppo libero e troppo slegato rispetto alla maggior parte di quelli che transitano sulle nostre pagine, ma si tratta di un’opera che crediamo abbia tutto il potenziale per andare a solleticare la curiosità anche dei lettori più intransigenti, e meno abituati a questo tipo di sonorità. Il carattere del disco però non deve trarre in inganno. Al netto di quel senso di (eccessiva) creatività di cui parlavamo poco sopra, Growl alla fine si caratterizza per il suo saper essere concreto grazie ad un approccio che suona minimalista, ancor prima che libero ed agile. Con la conseguenza che, a fine ascolto, resta addosso un senso di soddisfazione, figlio di un ascolto che non possiamo non sottolineare come accattivante.
Costruito su un dualismo tra una batteria jazzata che guida le danze, e una chitarra che la rincorre armonicamente, in un corteggiamento costante, che sembra sparire, ma che invece torna, prepotente, concludendosi in un amplesso leggiadro e gradevole, Growl, alla fine ha tutte le carte in regola per convincere anche i più scettici. A noi piace pensare che si tratti di un disco libero a tutti gli effetti, di quelli cioè che, una volta dal vivo, mutano, lasciandosi andare all’imprevedibilità dell’improvvisazione, in barba a tutti i canoni estetici e ai dogmatismi.
(Pelagic Records, 2025)
1. Get Ready
2. Superstar
3. Lézard Rouge
4. Harder Than Rain
5. Pepe-Pepe
6. Lo4
7. Walking In Moonlight
8. Be Free
9. Alright, Goodnight


