Trovare degli aggettivi univoci per definire il mare è impresa assai ardua: può essere calmo, placido, silenzioso e al contempo torbido, agitato, se non addirittura tempestoso, burrascoso. Una cosa è certa: sa essere misterioso, pieno di meraviglie e di insidie. Se si dovesse trovare una categoria estetica all’interno della quale collocare il mare, sarebbe senz’altro quella del “sublime”. Esso trascende la dicotomia del bello contrapposto al brutto e incarna al meglio il sentimento di piacere misto al potenziale terrore che, per vastità, potenza e distanza dalla dimensione strettamente umana, è in grado di suscitare in chi ne è al cospetto. Tutta la natura, nelle sue manifestazioni più maestose, può in qualche modo sottostare a questa definizione.
Il disco d’esordio degli Ainu è come il mare, e chi lo ascolta può essere un moderno viandante sul mare di nebbia che ne contempla, da un’altura, l’energia, l’incedere, il moto perpetuo. Non a caso il terzetto, autore del disco omonimo, sul mare ci è nato e cresciuto e, in qualche modo, se lo porta dentro. Il risultato di questa commistione uomo-mare o, più in generale, uomo-natura, è racchiuso in quattro tracce inframezzate da un breve intermezzo, che, almeno a parere di chi scrive, rappresentano quanto di meglio il post-metal strumentale abbia prodotto in Italia da molto tempo a questa parte. L’opera degli Ainu è maestosa, varia negli spunti compositivi, precisa nella costruzione dei brani che, come da canoni del genere, toccano discrete vette di minutaggio. Andando con ordine, “Il Faro” apre le danze con un monologo tratto dal “The Lighthouse” di Robert Heggers (andando subito ad esaltare anche una certa passione dei genovesi per i richiami cinematografici, che verrà ripresa anche nei brani successivi), e sfocia in bordate di basso, rallentamenti, aperture atmosferiche che arrivano quando le onde sonore stanno per sommergere l’ascoltatore e, come ogni mare in tempesta che si rispetti, chiude con nuovi e successivi flutti sempre più alti e minacciosi. Dopo il naufragio a cui ci ha condotto l’apertura dell’album è la seconda traccia, “Aiutami a Ricordare”, a cullarci inizialmente per poi risucchiarci nuovamente in un sempre ben ragionato furore, impostando un climax ascendente in cui l’ariosità delle sezioni iniziali ed intermedie lascia spazio, nei minuti finali, ad una furia cieca e asfissiante. Il breve interludio “D.E.V.S.” è, oltre che necessario per riempire d’aria i polmoni, propedeutico per introdurre il quarto brano, “Khrono”, che riprende un iconico dialogo della serie tv che presta il nome all’intermezzo precedente (Devs, per l’appunto) e lo ripropone in un loop ipnotico accompagnandolo e valorizzandolo magistralmente con la collaborazione del trombone di Francesco Bucci degli Ottone Pesante e di Giorgio Nattero dei conterranei Carcharodon. Il risultato è un pezzo che prende per mano e seduce, per poi condurre nel mulinello degli ultimi minuti e rappresenta, forse, il brano più riuscito del lotto. Concludiamo infine con “Call of The Sea” che, per titolo e atmosfere, richiama al The Call of Cthulhu del sempreverde Lovecraft e vede la partecipazione della meravigliosa voce di Lili Refrain che, come una moderna sirena, ammalia con una litania dall’incedere inizialmente lento e ragionato, ma che esplode in tutta la sua potenza espressiva nella parte finale e lascia spazio, negli ultimi secondi, al rumore del mare e, in lontananza, ad un sinistro suono abissale. Come anticipato, gli spunti e i riferimenti musicali sono molteplici ma perfettamente amalgamati, con incursioni più o meno frequenti in territori sludge e stoner à la Bongzilla e Sleep, passando per il doom e la psichedelia pesante; mentre un parallelismo in territorio nostrano è possibile trovarlo con una certa produzione targata Threestepstotheocean della prima metà degli anni 2010.
Tirando le somme, Ainu è un album bellissimo. È tale perché ha una direzione ben precisa, eppure ogni ascolto conduce alla conclusione passando per una rotta diversa. È tale perché è suonato splendidamente, e la componente suonata è paradossalmente secondaria a quella emozionale. È tale anche perché è un lavoro colto nei riferimenti ed elaborato nella struttura, ma soprattutto perché parte da un concept e lo mette in musica, portandolo limpidamente all’ascoltatore. Quando un disco strumentale riesce a fare questo, è un gran disco. Esordio dell’anno.
(Subsound Records, 2024)
1. Il Faro
2. Aiutami a Ricordare
3. D.E.V.S.
4. Khrono
5. Call of The Sea