Al settimo full in venticinque anni di carriera le trame dell’arazzo Alcest cominciano a lasciar intravedere un po’ le fibre, come se si stesse iniziando a ripercorrere sentieri già battuti ma con minore verve ed enfasi. Les Chants de l’Aurore, nuovo parto a firma del duo Neige/Winterhalter, è un lavoro che, come si può intuire sin dalla splendida copertina, sposta l’accento verso tonalità più calde, gioiose e mattutine, dove i due precedenti lavori si muovevano invece in ambiti più crepuscolari e notturni.
Ne scaturisce un disco 100% Alcest, questo è indubbio, ma assai più impalpabile e brumoso, che sfugge tra le dita e purtroppo, almeno per chi scrive, manca di emozionare. E se a Neige si toglie questa capacità innata rimane poco in un suo album, che come in questo caso suona un po’ manieristico a assente a sé stesso, un po’ come se il Nostro avesse tirato i remi in barca e si facesse trasportare da un fiume che lui stesso ha contribuito a generare, ma che tra momenti di rapide e sognanti traversate è diventato in questo caso un ruscello di bosco. Piacevole senza dubbio e d’atmosfera, ma un po’ troppo di contorno. E anche quando il cantante prova a dare maggiore verve con il suo scream, e anche quando la batteria prova a travolgere e a farsi incalzante, di fatto l’impatto non è devastante o coinvolgente come un tempo (e basta andare poco lontani, anche solo al precedente Spiritual Instinct, per trovare qualcosa di meglio). Qualcuno ha parlato di un ritorno alle atmosfere del capolavoro Souvenirs D’un Autre Monde: no, assolutamente. O meglio, se parliamo di rievocazione di quelle tematiche sognanti, sospese tra fantasia e realtà, quel “Tír na nÓg” (per citare proprio un pezzo da quel lavoro) sul quale Alcest ha costruito di fatto tutta la sua epica, e se restiamo solo nell’ambito della pura estetica musicale, allora forse sì, possiamo riconoscere che Les Chants de l’Aurore va un po’ a toccare gli stessi territori dolci e cullanti del capolavoro del 1999. Ma finisce lì, manca in questo caso la capacità di commuovere (perché sì, Alcest sapeva toccare corde assai profonde in quell’opera), che stavolta vengono lambite come in “Réminiscence” o in “L’Adieu”, i due momenti effettivamente più incisivi (e non a caso i più strumentalmente “diversi”) del disco.
Les Chants de l’Aurore non è un brutto album: certi gruppi venderebbero le mamme per poter comporre anche solo un brano come “L’Enfant De La Lune (月の子)”, ma da Alcest non è possibile aspettarsi qualcosa di brutto, questo è ovvio: il Nostro parte già con una solida base dalla quale non scende, ma stavolta nemmeno ci prova più di tanto a spiccare il volo. Cosa ci rimane dunque: un disco buono, più che sufficiente se consideriamo i mezzi di Neige e Winterhalter, ma che viaggia con il freno a mano tirato, alla ricerca di chissà quali eteree ispirazioni che stavolta, a nostro avviso, latitano.
(Nuclear Blast, 2024)
1. Komorebi
2. L’Envol
3. Améthyste
4. Flamme Jumelle
5. Réminiscence
6. L’Enfant de la Lune (月の子)
7. L’Adieu