Figli di una Motown distopica, gli Algiers si sono fatti conoscere già nel 2015 con il loro debutto omonimo spiazzante. The Underside of Power conferma le potenzialità del combo anglo-americano e li eleva a Next Big Thing della musica di questo decennio musicale troppe volte già accusato di non riservare alcuno sprazzo di personalità o originalità musicale. Parliamoci chiaro, questo è un albo che non piacerà a tutti i lettori di GOTR abituati a ben altro tipo di frequenze e distorsioni, ma è innegabile non essere incantati da quanto fatto dal quartetto anglo-americano. Una miscela unica di soul, r&b, jazz, noise, gospel, post-punk, funk e industrial che ammalia la sensibilità musicale di chi è capace di andare oltre i generi e oltre le etichette. The Underside of Power richiede del tempo per essere metabolizzato, tra beats di ferocia dissonante e momenti di respiro oscuramente dilatati, accompagnati dalla voce impressionante di Franklin James Fisher, che in ogni canzone ci conduce tra invettive politicamente impegnate urlate con rabbia e sgomento e momenti melanconici di rassegnazione. Un gospel moderno acido e distorto, sbattuto in faccia già dall’opener “Walk Like a Panther”, che il cantante di Atlanta guida talvolta con l’ausilio del pianoforte (“The Cycle/The Spiral: Time to Go Down Slowly”) oltre che con una voce dotata di un range vocale invidiabile che ben si adatta a composizioni che attingono a piene mani da una sensibilità electro-beat che ricorda i Portishead più eterei (“A Murmur. A Sign.”, “Plague Years”), dal post-punk (“Death March”) di matrice 80s e dal proto-punk degli MC5 (“Animals”). La componente politica rimane predominante rispetto alle tematiche personali e viene fuori in moltissime delle composizioni del lotto con verve passionale e infuocata: basti pensare ad esempio alla forsennata “Cleveland”, canzone di denuncia sugli abusi perpetuati ai danni di uomini di colore da parte delle forze dell’ordine, oppure alla più quieta “Hymn for the Average Man” dedicata all’elettorato di Trump. Invettive veementi e culturalmente non banali, come dettato dalla scuola dei Rage Against the Machine, The Clash, Public Enemy e moltissimi altri. Impossibile poi rimanere immobili con le ritmiche concepite dal duo Matt Tong – Ryan Mahan, i quali prendono a piene mani figure tipicamente funk-soul (“The Underside of Power”, “Cry of the Martyrs”) le quali, con l’ausilio delle sferzate chitarristiche di Lee Tesche, sono insozzate e rese immonde, mostrando un’attitudine di fondo psichicamente industrial. Tutto questo marasma di sonorità, pur essendo assolutamente eterogeneo, si rivela particolarmente personale e riconoscibile grazie anche al lavoro dietro al mixer di Adrian Utley e Randall Dunn (già al lavoro con Portishead e Sunn O))) tra gli altri) che, per loro stessa ammissione, si è rivelato un utter nightmare.
In particolare gli episodi più ballabili del lotto risultano pervasi da un’isteria e una compulsività di fondo che spiazza, permeando l’intero lotto di una violenza figlia dei nostri tempi e della nostra pigrizia causata dall’eccessivo benessere e dall’ignoranza colpevole di chi, volendo, potrebbe accedere a qualunque informazione. Un manifesto che racconta il populismo che arriva dalla paura nei riguardi del prossimo, una revisione e riscrittura della storia tipica del modo di agire umano, sempre identico a sé stesso e improrogabilmente ciclico. Un disco che fa riflettere e che cerca comunque di perpetuare un cambiamento sociale facendo prima di tutto capire i mali e le contraddizioni di questa società focalizzati negli United States of Amnesia. Se cercate un capolavoro in questo decennio di musica, fermatevi da queste parti.
(Matador, 2017)
1. Walk Like a Panther
2. Cry of the Martyrs
3. The Underside of Power
4. Death March
5. A Murmur. A sign.
6. Mme Rieux
7. Cleveland
8. Animals
9. Plague Years
10. A Hymn for an Average Man
11. Bury Me Standing
12. The Cycle/The Spiral: Time to Go Down Slowly9.0