Dietro l’eloquente moniker Atavismo si cela un power trio andaluso che con Inerte giunge al secondo capitolo della propria discografia, dopo aver esordito nel 2015 con Desintegración. Eloquente, si diceva, perché l’atavismo, in spagnolo come in italiano, è il fenomeno legato al ripresentarsi nell’individuo di tratti e caratteristiche proprie degli antenati, assenti però negli ascendenti prossimi. Nomen omen: la musica degli spagnoli è riconducibile al tratto somatico del prog rock di fine anni ’60, quello pesantemente influenzato dalla psichedelia, in una parola pinkfloydiano. L’ereditarietà nel sound del trio è però riconducibile ad avi decisamente precedenti, dato che il combo riesce – con gusto e destrezza – ad assorbire gli umori della musica popolare della terra natìa, utilizzando la lingua madre, arrivando ad un risultato che li pone su un altro piano rispetto al gran numero di progetti legati, in qualche modo, alla sfera progressive.
L’iniziale “Pan Y Dolor” è un brano emblematico, posto sapientemente ad apertura, perché è capace di fare scattare un clic, un riflesso che cattura l’attenzione dell’ascoltatore. Un intro dilatato apre per un inaspettato flamenco, evidente in tutte le sue peculiarità, dal tipico strumming al cantato corale. I due momenti si alterneranno per tutto il brano – spezzati da un interludio psichedelico – in maniera naturale e coerente. La melodia alienante è senza dubbio una freccia nell’arco nei Nostri, come dimostra “La Maldición Del Zisco”, dove un basso stoner danzereccio fa da tappeto ad un synth spaziale (si delinea, in questo senso, una certa somiglianza con gli israeliani Tiny Fingers) a cui si sovrappongono delle vocals nomadiche e delle percussioni.
Ascoltando il disco è facile notare come questo susseguirsi, sovrapporsi e congiungersi di influenze disparate non sia né pretenzioso né pacchiano, come la parola scritta potrebbe far intendere. Al contrario, il sound degli Atavismo è pacato, gentile, ha in sé molto poco dello stereotipico fuego spagnolo. In certi momenti ciò si tramuta in un punto a sfavore, in quanto brani come “El Sueño” e “Volaras” appaiono sin troppo diluiti nella loro durata superiore ai dieci minuti, specie nel secondo caso, in cui l’eco dei Pink Floyd si fa eccessivamente invadente.
In ogni caso, se rapportato all’uscita precedente, ancora acerba e derivativa, Inerte rappresenta un significativo passo avanti nella carriera del combo spagnolo. Urge però un ulteriore passo in avanti per slacciarsi dai numi tutelari, magari orientando il proprio atavismo (con la “a” minuscola) verso le radici più profonde della cultura iberica. In una scena densamente affollata di nuovi progetti, infatti, l’unicità dell’elemento esotico sembra un appiglio sicuro su cui porre l’accento per costruire un progetto valido e riconoscibile. In attesa di una terza fatica che dimostri concretamente lo spessore dei Nostri, qui espresso in nuce da alcuni momenti eccellenti ma sporadici, non possiamo fare altro che consigliare Inerte ai fan di compagini come Calexico o Triana, nonché ai più curiosi e aperti appassionati di rock progressivo.
(Temple Of Torturous, 2017)
1. Pan Y Dolor
2. El Sueño
3. La Maldición Del Zisco
4. Belleza Cuatro
5. Volaras