Al di là dell’indubbio fascino puramente simbolico e delle celebrazioni di rito, il traguardo dei dieci anni di carriera è sempre un’ottima occasione per testare lo stato di salute di una band, a maggior ragione in un habitat pentagrammatico come il metal, spesso contraddistinto da un lato da dinamiche (eufemisticamente) complicate in termini di convivenza tali da nuocere alla longevità di un progetto e dall’altro da una progressiva perdita del carburante originario, sostituito da quello che nelle recensioni non di rado si tende a definire “mestiere” per rendere meno tranchant la sensazione di fine ispirazione o di comodo appiattimento sui cliché di genere.
A sfilare sotto il fatidico striscione sono oggi gli svedesi Avatarium, nati sotto ottimi auspici come cenacolo di grandi nomi riuniti intorno a un monumento come Leif Edling, storico signore delle quattro corde in casa Candlemass che, in vista dell’annunciata (e fortunatamente nel tempo non concretizzata) fine corsa della casa madre, aveva annunciato l’inizio di un nuovo viaggio con compagni di strada dallo sterminato bagaglio musicale. Che si trattasse di artisti incrociati nei molteplici giri delle orbite candlemassiane (Carl Westholm), o dalla lunga militanza in moniker di planetario rilievo (Lars Sköld, drummer dei Tiamat e Marcus Jidell, a lungo sotto le insegne Royal Hunt), nessuno ha avuto dubbi sul fatto di trovarsi al cospetto di un supergruppo dalle potenzialità pressoché senza limiti, oltretutto a maggior ragione dal momento che l’unica vera debuttante della compagnia, la vocalist Jennie-Ann Smith, ci ha messo pochissimi secondi, nell’EP di esordio Moonhorse, per far capire di avere numeri vocali da autentica fuoriclasse. Issata sulla tolda una bandiera doom dagli originali riflessi settantiani, i Nostri hanno sempre dimostrato di saper solcare da consumati lupi di mare acque pericolosissime e ad altissimo rischio di naufragio, tra azzardate imitazioni fuori tempo massimo e anacronistici richiami a sonorità decisamente demodé, per i canoni contemporanei del genere. Così, anche se dopo la clamorosa doppietta iniziale Avatarium/The Girl with the Raven Mask un sia pur ottimo album come Hurricanes and Halos aveva fatto temere un possibile inaridimento della vena più oscura e cadenzata a vantaggio della componente più morbidamente easy listening, già tre anni fa The Fire I Long For aveva ripristinato dosaggi e pesature abituali e la navigazione riprende oggi con pari forza e qualità con questo Death, Where Is Your Sting. Sul piano biografico, detto che ormai della line-up originaria è rimasta solo la coppia Jidell/Smith, va subito evidenziato come i nuovi ingressi (materializzatisi nel biennio 2016-2018) si siano subito integrati a meraviglia nei meccanismi del gruppo, che in ogni pubblicazione conferma la straordinaria capacità di disegnare atmosfere vintage dal gusto vagamente teatrale senza dimenticare le classiche “sporcature” previste dalla lezione sabbathiana, sia pur mediata nella fattispecie dai canoni della seconda ondata doom, capitanata da Saint Vitus e Pentagram. A completare e rendere ancor più accattivante il quadro, verrebbe da dire pressoché fisiologicamente, emerge prepotentemente dallo sfondo l’humus Candlemass e, in parte, Solitude Aeturnus, che continua a nutrire il quintetto pur senza spostarne mai la bussola verso approdi epic veri e propri. Anche stavolta, stupisce e incanta l’incredibile punto di equilibrio raggiunto tra i campi di forza che si aggirano nelle tracce del platter, a cominciare da un approccio melodico complessivamente molto semplice e lineare ma mai contaminato dal veleno della banalità, passando per il ruolo centrale riservato ai riff, sempre pulitissimi e trascinanti, a sottolineare una solidissima formazione hard rock, per chiudere con strutture dei brani poco articolate ma impeccabili per resa ed effetto. Last but (più che sicuramente) not least, il valore aggiunto è ancora una volta la prova vocale di Jennie-Ann Smith, che conferma la sua residenza in pianta stabile nella fascia di eccellenza della declinazione al femminile del doom ma, oseremmo dire, dell’intero spettro rock. Qualche linea di contatto si può forse rintracciare con il timbro di un’altra grande della scena come Jessica Toth, ma sono altrettanto innegabili le differenze tra i fumi esoterici e psichedelici incantevolmente sprigionati dalla sacerdotessa dell’Ohio e le doti da interprete pura magistralmente squadernate a Stoccolma. Otto tracce per una durata complessiva appena superiore ai quarantacinque minuti, il viaggio di Death, Where Is Your Sting non riserva alcun momento di caduta della tensione e non convoca mai il pilota automatico alla guida, dispensando emozioni e coinvolgimento in ogni episodio. Che si tratti di iniettare vapori gothic e decadenti su andature cadenzate (l’opener “A Love Like Ours” è un pezzo di bravura da applausi, con il suo tripudio di archi malinconici, ma attenzione anche alla sua “controparte” minimalista incarnata dalla conclusiva, strumentale “Transcendent”), di ricamare poetici cammei su un impianto massiccio e imponente (“Stockholm”) o di entrare in modalità narrativa pura (la title-track, la successiva “Psalm for the Living” e la semi-ballad “Mother Can You Hear Me Now” esaltano una Smith mai così a proprio agio nei panni della cantastorie che riunisce davanti al fuoco un pubblico di astanti nelle eterne notti invernali del Grande Nord), il risultato è sempre incantevolmente ragguardevole. Il versante energia & impatto è del resto non meno presidiato, con una traccia come “God Is Silent” che si concede anche qualche sprazzo di dissonanza incaricando le sei corde di inacidire la trama prima di un finale monoliticamente orientato e con la sorprendente base classic heavy di “Nocturne”, che riporta indietro le lancette del tempo ricordandoci da dove veniamo e perché, una volta atterrati sul metal pianeta, non siamo più riusciti a ripartire.
Un convegno di musicisti eccezionali capaci di trovare in ogni cimento una mediazione artistica tra l’impeccabilità delle forme e l’anima che deve sempre accompagnare un brano, eleganza e raffinatezza dispensate a piene mani senza dimenticare le radici oscure e potenti che hanno fatto la storia di un genere ormai di antico e nobile lignaggio, Death, Where Is Your Sting è un album con tutti i tratti dell’imperdibilità, lottando ad armi pari con i lavori precedenti per il ruolo di gioiello della corona di un’intera discografia. Dieci anni di viaggio, dieci anni di emozioni, dieci anni di attese mai tradite, lo stato di salute degli Avatarium è decisamente impeccabile, li aspettiamo con incrollabile fiducia anche sui tornanti della seconda decade di carriera.
(AFM Records, 2022)
1. A Love Like Ours
2. Stockholm
3. Death, Where Is Your Sting
4. Psalm for the Living
5. God Is Silent
6. Mother Can You Hear Me Now
7. Nocturne
8. Transcendent