Festina lente, “affrettati lentamente”, è una locuzione latina, attribuita all’Imperatore Augusto, che sta a indicare un modo di agire senza indugi ma con cautela. Il concetto calza a pennello ai Benthic, quintetto tedesco (di Amburgo) formatosi nel 2012 e che fa la sua comparsa nelle discografie solo nel 2016 con l’EP The Mess. Adesso, dopo nove anni, ecco che ci ritroviamo tra le mani questo ottimo Sanguine, uscito a fine febbraio ma che possiede tutte le potenzialità per finire nelle classifiche di fine anno.
Se la smania classificatoria va a inserire i Benthic nel calderone del post-hardcore (di certo quello meno freddo e complesso) va detto che innumerevoli sono le sfaccettature di cui si compone il prisma dei tedeschi, che si dicono influenzati da Thrice (soprattutto quelli del bellissimo The Artist in the Ambulance) e dagli ultimi Alexisonfire. Confermo, l’influenza si sente soprattutto nel come le melodie delle voci e delle chitarre diventano strumento per trasmettere un gran portato emotivo. Ogni tanto si sente qualche struttura ritmica che possiamo aver sentito nei Tool, un sentimento quasi grunge o post-grunge (in alcuni passaggi penso a degli Stone Temple Pilots molto irrobustiti), un’emozione generalizzata non troppo dissimile da quando più di vent’anni fa scoprimmo Antenna dei Cave In, ma colpisce in generale come i Benthic riescano a trasmettere, e molto, le proprie emozioni in un contesto strutturale e ritmico quadrato e, appunto, “teutonico”. Tra le telluriche scosse prodotte dalle canzoni spicca subito la voce del cantante Siegmar Holzfuß che si disimpegna con estrema versatilità sia nel growl, sia nello scream, sia nel cantato pulito che dimostra la sua grande padronanza anche quando le tonalità toccano picchi altissimi. Allo stesso modo colpisce la batteria a carico di René Pablotzki, spesso nervosa à la Dave Grohl (soprattutto il Grohl dei QOTSA), sempre precisa e mai ridondante o esagerata. Potremmo comunque parlare anche delle chitarre robuste e del basso rotondo ma tagliente, potremmo parlare delle singole canzoni, del violentissimo riff di “Murmur” (ah, i cari vecchi Raging Speedhorn…) e del breakdown che porta verso la conclusione “The Stranger”, ma è importante vedere questo album come un tutt’uno letteralmente monumentale. Sì, chi scrive ha il difetto di citare dischi e band riconoscendo influenze qua e là nei pezzi recensiti e qua cade nuovamente in questo suo vizio. Non voglia comunque chi legge vederci, soprattutto nel caso dei Benthic, una dimostrazione di derivazione o di poca originalità. I Benthic sono, anzi, una band estremamente personale che non ha timore di andare a ripescare tracce di un passato musicale importante e rielaborarlo in modo interessante e innovativo.
Per una volta una recensione breve, senza andare a scandagliare i singoli pezzi ma con il caldissimo invito ad ascoltare e acquistare questo disco per avere l’opportunità di scoprire un quintetto che fa le cose, molto, per bene. Il vecchio recensore, ingrigito dall’età e dalla piattezza di tante uscite discografiche degli ultimi tempi, si ritrova quindi a emozionarsi per una band misconosciuta come capitava anni e anni fa. Eppure, in questo caso, anche togliendo il carico emotivo legato al ricordo e alla nostalgia, il giudizio non può che essere estremamente positivo per un album attuale, moderno ma con un grande rispetto per tante cose importanti del passato. C’è bisogno di dischi come Sanguine, c’è bisogno, grande, di band come i Benthic e conserviamo la speranza che il loro modo di avanzare senza indugi proceda d’ora in poi con un po’ meno cautela e con un pizzico in più di sprovvedutezza e urgenza. Festina sì, quindi, ma un po’ meno lente. Detto questo, grazie Benthic.
(Lifeforce Records, 2025)
1. Sanguine
2. Moloch
3. Murmur
4. Pitch & Tar
5. The Stranger
6. The Living Torch
7. All Is Vanity
8. Faded
9. Godot
10. Sanguine, Pt. 2