Opere come Carrier, il nuovo disco dei b-son (o Black Shape of Nexus se preferite) sono come una montagna da scalare, una vera e propria sfida all’ascoltatore. Il sestetto tedesco non concede alcun aiuto, indizio o qualsivoglia suggerimento per facilitare l’ascolto, anzi, fa di tutto per allontanare l’ascoltatore medio, indicando solo una presunta direzione da seguire con un sorriso arcigno stampato in volto. Tutte le strade (doom, sludge, drone, noise, post-metal/rock, jazz, stoner…), qualunque venga intrapresa, condurranno alla stessa destinazione. E forse la cosa più interessante è che ogni persona che si metterà in viaggio vedrà e sentirà sensazioni differenti.
Il percorso di purificazione comincia con “I Can’t Play It”, traccia doom/drone intensa con una ritmica ossessiva ripetuta in loop. Il ritmo è quello di un immenso pachiderma che scuote il terreno. Molto interessante l’intermezzo jazzato contenuto nel brano, che denota una certa classe da parte della band. Segue “Lift Yourself”, uno specchio dell’annientamento cerebrale che con un lento incedere elettronico, drogato da atmosfere sinfoniche, lascia spazio ad un martellamento sonoro tutto sommato “classico” (strumentalmente parlando). Le vocals, aggressive e malefiche, completano il brano, che si conclude lasciando un senso di desolazione, come se fosse appena esplosa una bomba atomica. “Sand Mountain” rimescola le carte in tavola estraendo dal mazzo chitarre grasse che sorreggono un cantato assatanato. Ci si ritrova in territori sludge, dove il terreno è marcio, l’aria è malsana e nell’etere risuonano echi melodici di chitarra dosati con il contagocce (una delle poche concessioni “leggere” dell’album).
Il quarto pezzo, “Facepunch Transport Layer”, parte con una chitarra quasi saltellante, addirittura c’è un senso perverso di allegria, che viene però smorzato in poco tempo da una seconda chitarra capace di inserirsi con pesantezza ed acidità. L’effetto è disturbante ed appena entrano in scena anche batteria e voce il brano inizia a contorcersi, infiammandosi come le pareti dell’inferno. Il sound poi si tranquillizza, ma qualcosa comincia a strisciare nell’ombra. La canzone (sempre se si vuol definirla così) alterna furia e calma in maniera intensa, fino ad un finale disperso tra noise ed effetti spaziali. Comincia a farsi sentire la stanchezza ma non è ancora finita: “Sachsenheim” esce fiera con asce fumose e stordenti combinate con la consueta voce cattivissima. Delizioso l’inserto blues presente, come pure azzeccata è la risatina finale. Il pezzo di chiusura è “Triumph of Death”, cover degli Hellhammer: se l’originale, mortifera e glaciale, era già caratterizzata da un’atmosfera morbosa e lacerante, qui viene resa più apocalittica. Il riff portante veste un abito più aspro e velocizzato, il risultato è meno ossessivo e più accessibile.
A fine ascolto ci si ritrova stremati ma più leggeri, consci di aver raggiunto un nuovo livello di consapevolezza. Il disco non è per tutti, è un’opera che va assimilata con decisa pazienza. Non è esente da difetti, ma sono proprio certi difetti a rendere speciale un album di questo tipo.
(Exile On Mainstream Records, 2016)
1. I Can’t Play It
2. Lift Yourself
3. Sand Mountain
4. Facepunch Transport Layer
5. Saschsenheim
6. Triumph of Death (Hellhammer cover)