A un mese dalla morte di Bowie cosa rimane della sua ultima controversa opera? – Un punto di vista ed un’analisi da parte di DemonBox.
Che senso ha tornare a arguire adesso sull’ultimo lavoro di David Bowie a più di un mese dalla sua uscita? Dopo tutti i fiumi di inchiostro, virtuale e non, che sono scorsi a destra e a manca, inondando il mondo della musica parlata fino allo sfinimento? Più che una vera e propria recensione ha quindi senso scrivere di ciò che rimane di questo disco, il quale, giocando a carte scoperte fin dall’inizio, può essere considerato come una delle punte di diamante di questi ultimi quindici anni musicali, per spessore dei contenuti musicali-concettuali e per ciò che rappresenta nel mondo del marketing musicale. Non dico che sarebbe un argomento da tesi di laurea, ma poco ci manca. Ed è un lavoro che tutti gli amanti della Musica, capital M, dovrebbero ascoltare e far proprio. Anche quei lettori di GOTR che magari non sarebbero da soli invogliati a approfondire i propri orizzonti musicali. Quindi qui si ripropone un’analisi più conscia di quel che rappresenta Blackstar nel parere di chi scrive, lungi dall’essere una mera recensione che non renderebbe giustizia a ciò che è questo lavoro – troppe cose da eviscerare rischiando di divagare ai limiti della fantascienza musicale – o che non sia già stato detto/scritto.
Escludendo esempi illustri di artisti generici morti in scena, quali Molière, Houdini, Mango (trolling-time, perdonatemi), non viene in mente nessuna rock-pop (o forse si dovrebbe dire black)-star che abbia messo in scena la propria morte con tale sfacciataggine e personalità. Nessuno – limitiamoci ai musicisti consci di sapere la propria fine a breve e la cui esistenza non sia terminata in modo tragico – ha mai saputo trasformare il proprio trapasso in un evento così tanto artisticamente rilevante e in una vera e propria operazione di marketing. Ma questa volta si tratta di marketing con un contenuto di tutto rispetto e sincero. I contenuti non sono colmi di nulla e privi di valori, come ormai abituati e assuefatti dai media che ci bombardano ogni giorno ed in ogni ambito, dalla musica alle pasticche per la tosse. Non prendiamoci in giro, Bowie è sempre stato un genio del marketing. Egli è stato l’esempio vivente di come il mercato musicale possa dipendere dall’immagine dell’artista. Contrariamente a tanti, troppi, altri però Bowie aveva anche i contenuti: ed è qui che arriva il genio, l’unione dell’esteriorità e del messaggio artistico vero. Musicalmente, Bowie ha sempre anticipato, o per meglio dire preso dall’underground, determinati elementi che sarebbero esplosi da lì a poco nella scena musicale di determinati anni, li ha resi suoi e fruibili, attraverso esagerazioni, provocazioni e tanta teatralità espressa attraverso il linguaggio del corpo e del travestimento. Tutti conoscono almeno una canzone di David Bowie o sono stati anche indirettamente coinvolti dalla sua arte: dalla casalinga al fan industrial dell’ultim’ora, dai cultori della musica sperimentale anni 70 ai bambini dell’asilo.
Ma è giusto anche puntualizzare che Bowie in fondo non ha inventato nulla. Considerate l’androginia eclettica di Aladdin Sane o l’”alienità” umana di Ziggy Stardust. Già Mick Jagger si travestiva da donna sul palco, e lo space rock già esisteva da ben prima di Bowie. Anche la svolta industrial degli anni 90 non è esente da questo pensiero, eppure Bowie è riuscito laddove altri hanno fallito o non sono arrivati: ha reso la musica teatro per tutti, colmo di poetica e stravaganza. E soprattutto ha preso sottogeneri di nicchia e li ha resi accessibili a un pubblico più ampio, producendo una quantità immensa di canzoni degne di nota colme di messaggi non banali ed universali. Non è una cosa da poco.
E, senza divagare oltre, come si inserisce Blackstar in questo scenario? Che ruolo ha all’interno della discografia di colui che è stato “Uno, Nessuno e Centomila”? Perché questo per chi scrive è già il disco dell’anno e perdura negli ascolti senza cali alcuni?
Blackstar è la messa in scena di un’elegia funebre fatta da David Robert Jones per celebrare il trapasso dell’artista David Bowie, la cui uscita è stata assolutamente programmata in modo da coincidere il più possibile con la morte dell’artista (ancora, marketing). Ed è vitale scindere il personaggio (o i personaggi) Bowie, da David Robert Jones, le cui spoglie mortali meramente assistono a questo spettacolo, assieme a tutti noi. David Robert Jones è andato via, Bowie rimane in ogni caso e brillerà come una stella nera. Una delle cose che sconvolge di più è pensare come un uomo afflitto dal cancro in piena fase terminale sia riuscito a produrre un’opera del genere (includendo anche i bellissimi videoclip che hanno accompagnato l’uscita dei singoli), colma di una tale intensità e profondità. Già la cosa aveva lasciato attoniti dopo il primo ascolto, il giorno 6 Gennaio, senza saper nulla sulle sue condizioni di salute e considerando la sua sola età, in maniera molto maggiore di quanto accaduto dopo l’uscita del precedente The Next Day (2013). Figurarsi dopo qualche giorno e dopo aver unito i puntini. E i racconti venuti fuori dopo la morte di Bowie da parte dei suoi collaboratori più stretti lasciano sempre più sbigottiti e colmi d’ammirazione (si consiglia di recuperare queste dichiarazioni, N.d.A.) per l’incredibile forza di volontà messa in gioco dall’artista britannico.
Come in ogni lavoro del White Duke, le chiavi di lettura sono molteplici e spesso non immediate. Forse Blackstar è il lavoro più sperimentale e oscuro di Bowie dai tempi di Low (1977). Criptico come ai tempi della trilogia Berlinese, Bowie parla una lingua umana e torna ad essere sé stesso, come ai tempi di 1.Outside (1995). Bowie ha sempre amato avvalersi della simbologia – non a caso il titolo del disco è anch’esso un simbolo – e essere ambiguamente rappresentato da maschere e avatar (ancora una volta apprezzate come la scelta artistica vada ad influire sul mero marketing). È ironico usare ancora una volta una simbologia complessa e di non facile interpretazione per descrivere sentimenti universali, ma d’altronde questa è la caratteristica principale di David Bowie.
Dal punto di vista musicale Blackstar è un album di jazz-rock sperimentale dalle contaminazioni ritmiche prettamente hip hop à la Kendrick Lamar, colmo della poesia e delle aperture melodiche che sono da sempre il marchio di fabbrica di Bowie. Per la realizzazione delle tracce egli s’è avvalso delle prestazioni dei musicisti più promettenti della scena jazz newyorkese. In particolar modo è da lodare la prestazione della sessione ritmica Guiliana-Lefebvre, il cui lavoro è impressionante e di notevole fattura. Non ha un ruolo di secondo piano il sassofono di McCaslin, che pervade l’intero disco facendo da traite d’union in tutte le tracce: come se questo fosse il suono scelto da Bowie per rappresentare la propria dipartita. Volendo essere onesti, Bowie ha sempre “usato” altri musicisti per realizzare i propri lavori: ma la produzione, i contenuti e le melodie rimangono sempre opera di Bowie. Lavori come Low o Heroes (1977) sono eterni grazie anche ai meriti di Mr. Eno e Mr. Fripp, ad esempio. Oppure basti pensare all’apporto della chitarra di Mick Ronson sui lavori glam di Bowie come Hunky Dory (1971), The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars (1972) o Aladdin Sane (1973). Ma la componente predominante nella stesura di tali lavori è la sinergia delle forze e dei talenti in gioco. Blackstar è l’espressione massima di quanto fatto da Bowie nel corso della sua carriera da questo punto di vista. Questo traspare soprattutto dai testi, da leggere e rileggere, colmi d’una poesia e profondità disarmante, considerando la sensibilità necessaria nel trattare in prima persona un tema così delicato come la caducità dell’essere umano. Un artista nudo che si mostra morente e che, con sprezzo del pericolo inaudito, affronta la morte con una schiettezza che non può non commuovere. In particolar modo la voce esprime un pathos senza eguali. Bowie sarebbe capace col suo carisma di rendere ammaliante anche una ninna nanna. Si immagini cosa può succedere quando viene inscenato il tema della morte e quando lo si vive in prima persona. Una voce che emoziona e strugge il cuore, nonostante i quasi settanta anni e un cancro terminale alle spalle.
La natura dei contenuti di Blackstar emerge soprattutto dalla title track e dall’omonimo videoclip, vera parte integrante di questo lavoro. Il tema universale della morte, e del cancro, viene affrontato da Bowie in maniera struggente, sia fisicamente che emozionalmente, con un pizzico di blasfemia e molti riferimenti culturali ed esoterici sparsi qua e là (questo vale comunque per l’intero disco).
Ancora dopo un mese dalla scomparsa, le parole di Bowie continuano a riecheggiare e a coinvolgere:
In the villa of Ormen, in the villa of Ormen
Stands a solitary candle, ah-ah, ah-ah
In the centre of it all, in the centre of it all
Your eyes
On the day of execution, on the day of execution
Only women kneel and smile, ah-ah, ah-ah
At the centre of it all, at the centre of it all
Your eyes, your eyes
Something happened on the day he died
Spirit rose a metre and stepped aside
Somebody else took his place, and bravely cried:
(I’m a blackstar, I’m a blackstar)
How many times does an angel fall?
How many people lie instead of talking tall?
He trod on sacred ground, he cried aloud into the crowd
(I’m a blackstar, I’m a blackstar, I’m not a gangstar)
I can’t answer why (I’m a blackstar)
Just go with me (I’m not a filmstar)
I’m a take you home (I’m a blackstar)
Take your passport and shoes (I’m not a popstar)
And your sedatives, boo (I’m a blackstar)
You’re the flash in the pan (I’m not a marvelstar)
I’m the great I am (I’m a blackstar)
I’m a blackstar, way up, on money, I’ve got game
I see right, so wide, so open-hearted pain
I want eagles in my daydreams, diamonds in my eyes
(I’m a blackstar, I’m a blackstar)
Something happened on the day he died
Spirit rose a metre and stepped aside
Somebody else took his place, and bravely cried:
(I’m a blackstar, I’m a star’s star, I’m a blackstar)
I can’t answer why (I’m not a gangstar)
But I can tell you how (I’m not a film star)
We were born upside-down (I’m a star’s star)
Born the wrong way ‘round (I’m not a white star, I’m a blackstar)
Bowie, l’artista, è una stella nera che continua a splendere ma che non può esser vista. Essendo oscurati dalla luce di quest’astro, non riusciremo mai a raggiungere il vero “io” dell’artista, il quale è egli stesso coinvolto in questa cecità dovuta all’inconsapevolezza del proprio ruolo. I bottoni sembrano il simbolo dell’ostacolo con cui osserviamo la realtà che verrà solo raggiunta con una presa di coscienza raggiunta tramite una nuova Bibbia, il verbo divulgato dall’artista che rappresenta la sua stessa natura. La consapevolezza dell’essere Blackstar libera dai veli del pregiudizio e consente di guardare la realtà per come appare.
Mentre viviamo nell’ignavia, guardiamo con falsi occhi ogni mossa del nostro idolo di riferimento, adorandolo allo spasmo come se fosse un nuovo Messia e generando un vero e proprio culto della personalità tipico anche dei regimi dittatoriali, oltre che delle religioni stesse. È parte della natura umana mistificare dei personaggi particolarmente noti e popolari. Il teschio di colui che è presumibilmente Major Tom, solo una metafora per rappresentare tutti i personaggi interpretati da Bowie, viene adornato e adorato da una popolazione aliena dalle fattezze quasi feline, vivente in un’oscura città pseudo-arabeggiante. Questa città potrebbe essere “The villa of Ormen”, letteralmente “la città dei Serpenti” (dall’omonimo romanzo di Stig Dagerman, “Ormen”), in cui il serpente rappresenta la debolezza umana, nella cui dimora si erge una candela solitaria, la speranza della consapevolezza che brilla in un mare di distrazioni. I riti di venerazione somigliano tutti a delle coree innaturali, che richiamano il ballo di San Vito e sono volutamente dal carattere esoterico e pagano. Alcuni trovano anche connessioni con il video del pezzo dei Lazarus Blackstar “I Bleed Black”, la cui conoscenza da parte di Bowie non è da escludere, vista l’attenzione sempre avuta nei confronti della musica underground. Il tema della “black star” era stato anche affrontato da Elvis nella canzone omonima, ed anche qui i riferimenti si sprecano.
Senza divagare oltre, Bowie trascende la morte e la propria parola viene promulgata e “osservata” da tutti gli occhi che saranno su di lui, al centro della sala, laddove una candela continuerà a bruciare solitaria. Nel mentre degli spaventapasseri crocifissi si contorcono dal dolore, combattendo contro la morte per tentare di rimanere ancora in vita, mentre un mostro – presumibilmente una rappresentazione del cancro – li assale e li uccide nel giorno dell’esecuzione, o del trapasso. Alcuni dicono che i tre spaventapasseri sul Golgota rappresentino due artisti idoli di Bowie (Lennon e Elvis) e lo stesso Bowie, indicando come Bowie rispetti il dolore dei propri fans facendo intendere di sapere come ci si sente a perdere i propri idoli. Ma queste forse sono elucubrazioni che lasciano il tempo che trovano. Anche questi spaventapasseri hanno dei falsi occhi, forse segno che anche attraverso il dolore della malattia si raggiunge la consapevolezza del proprio essere.
Gli occhi, al centro del suo personaggio e del video, bucano letteralmente lo schermo indicando un carisma senza eguali, nonostante età e malattia. Su questi occhi, David Bowie ci ha costruito una carriera e, attraverso di essi, egli ci comunica il suo messaggio finale.
In pratica tutto questo sembra essere solo un’analisi del percorso fisico-spirituale di David Bowie avuto durante l’accettazione della morte, conscio di essere un idolo per molti ed una Blackstar per sé stesso, per David Robert Jones. Attraverso la malattia e l’esperienza si cresce, ed è quello che è successo anche a Bowie che qui si mostra più umano che mai. Altro che Starman, altro che popstar. Si parla della morte di una stella, la quale comunque continua a irradiare energia in un firmamento impersonale e irraggiungibile ai più.
Si è parlato a lungo anche della simbologia del video di “Lazarus”, dove il teschio (lo stesso utilizzato in “Blackstar”), rappresenta la morte, come nei quadri di molti pittori del passato, e un Bowie prima immobile a letto, provato dalla malattia e dopo nei panni di un oscuro Aladdin Sane scrive il proprio testamento:
Look up here, I’m in heaven
I’ve got scars that can’t be seen
I’ve got drama, can’t be stolen
Everybody knows me now
Look up here, man, I’m in danger
I’ve got nothing left to lose
I’m so high it makes my brain whirl
Dropped my cell phone down below
Ain’t that just like me
By the time I got to New York
I was living like a king
Then I used up all my money
I was looking for your ass
This way or no way
You know, I’ll be free
Just like that bluebird
Now ain’t that just like me
Oh I’ll be free
Just like that bluebird
Oh I’ll be free
Ain’t that just like me
Il testo si commenta da solo ed è stato analizzato in lungo e in largo. È il Bowie post-mortem che ci parla. Come il biblico Lazzaro anch’egli resuscita dopo tre giorni (esattamente i giorni che trascorrono tra l’uscita del disco e la morte dell’artista. Coincidenze?) sotto forma di Blackstar. Vi è morte anche nella vita e viceversa. “Lazarus” è un inno alla vita, alla resurrezione, e Bowie non può far altro che mostrarsi in carne, ossa e ceneri. E alla fine anche lui sarà libero di volare ed essere quel che si è davvero, non importa quanti soldi si siano spesi o in quanto lusso si sia vissuto. Anche qui, il personaggio rimane eterno, mentre David Robert Jones torna dentro un armadio, diretto verso l’oblio eterno. Il tutto viene pervaso ancora dal sassofono di McCaslin, il quale crea un’atmosfera elegiaca e malinconica che non può non coinvolgere.
Degli altri testi presenti nel disco e non accompagnati da videoclips si parla poco, ma meriterebbero tutti un’attenta lettura. In generale si nota una particolare volgarità nel linguaggio adoperato da Bowie, il quale sembra descrivere in “’Tis a Pity She Was a Whore” il cancro come se fosse una prostituta che prosciuga ogni sua energia vitale.
Man, she punched me like a dude
hold your mad hands, I cried
’Tis a pity she was a whore
’Tis my curse, I suppose,
that was patrol,
this is the war
Questa traccia, che prende il titolo in prestito da una tragedia di John Ford, era stata già rilasciata quattordici mesi prima, ma inserita in questo contesto la canzone assume tutto un altro significato. Anche “Sue (or in a Season of Crime)” era già stata rilasciata in precedenza, ma qui viene riproposta in chiave quasi prog-rock di crimsoniana o zappiana memoria. Sono ancora la malattia e la morte i protagonisti del pezzo, il quale descrive l’accettazione della morte incentrata su una Sue destinata a morire (o già morta), riproposizione moderna ancora di un personaggio della tragedia di John Ford menzionata poco prima:
Ride the train, I’m far from home
in a season of crime none need atone
I kissed your face.
Sue, I’ve pushed you down beneath the weeds,
endless faith in hopeless deeds.
I kissed your face, I touched your face.
Sue, goodbye.
Ancora una volta, come in tutte le tracce di Blackstar, la musica è straniante e al contempo malinconica, incarnando alla perfezione il messaggio di Bowie.
Forse la traccia più controversa del disco è “Girl Loves Me”, scritta metà in Polari – uno slang usato nei gay clubs di Londra negli anni 70 – e metà in Nadsat – linguaggio usato da Anthony Burgess in “Arancia Meccanica”. L’interpretazione del testo è quanto meno enigmatica, anche se sul web esistono numerose interpretazioni letterali di gente che si è sbizzarrita a carpirne ogni possibile significato. La cosa che lascia più atterriti è che il testo sembra ancora una perfetta descrizione degli ultimi giorni di vita di Bowie. Ricordando la sua morte avvenuta di Domenica, i versi:
Where the fuck did Monday go?
I’m cold to this pig and pug show
I’m sitting’ in the chestnut tree
Who the fuck’s gonna mess with me?
lasciano quanto meno qualche dubbio sulla possibilità che Bowie abbia perfino programmato (o previsto) il giorno della sua morte. “Dove cazzo è finito il Lunedì?”
In “Dollar Days” Bowie sembra riferirsi personalmente ai propri fans:
I’m dying to (too)
push their backs against the grain
and fool them all again and again,
I’m trying to
it’s all gone wrong but on and on
the bitter nerve ends never end.
I’m falling down
don’t believe for just one second I’m forgetting you.
I’m trying to, I’m dying to (too).
Questa è la canzone più auto-referenziale del lotto, in cui Bowie analizza tutto l’impero musicale che ha prodotto, sia il lascito artistico che gli stessi fans, in vista della sua imminente morte. E con il Duca Bianco, muore anche la sua produzione artistica (in teoria).
Infine, forse “I Can’t Give Everything Away” rappresenta il vero testamento lasciato dal Bowie più autentico ai suoi “seguaci”:
Seeing more and feeling less,
saying no, but meaning yes.
This is all I ever meant,
that’s the message that I sent.
I can’t give everything away.
La rassegnazione alfine giunge: Bowie, consapevole di non poter accontentare tutti, va avanti e prosegue il suo percorso umano verso la propria fine senza rimpiangere nulla nella sua vita di eccessi. Non a caso, come già scritto altrove sul web, in sottofondo è possibile sentire all’inizio della canzone l’armonica di “A New Career in a New Town” presente in Low. Questo è un altro inno alla vita dopo la morte, un incitamento ad andare avanti dedicato ai fans, ai propri cari e perfino a sé stesso, nel poco tempo rimastogli. Nella consapevolezza di essere una stella nera eterna con milioni di sfaccettature e molteplici contraddizioni in fondo umane.
In conclusione, pochi altri musicisti hanno saputo davvero rappresentare l’angoscia esistenziale della mortalità della condizione umana, ma nessuno è mai stato così sfacciato e pieno di personalità nel trasporre in arte musicale la conclusione della propria esistenza come David Bowie. Questo lavoro, la cui nudità e crudezza lascia sbigottiti considerando anche le condizioni nelle quali questo è stato realizzato, in pratica trasforma un evento traumatico come la morte in celebrazione della vita, artistica e umana, dopo di essa. Una celebrazione teatrale decisamente diversa da quella scaturita dal suicidio rock’n’roll di Ziggy Stardust, in cui già Bowie analizzava il peso della figura e dell’eredità lasciata da una rockstar consapevole del proprio ruolo.
David Bowie, aka Major Tom, aka Ziggy Stardust, aka the White Duke, aka Aladdin Sane, aka the Man Who Sold The World, aka the Blackstar, aka molti altri, ha trasceso la mortalità catturando la propria dipartita verso un altro palcoscenico, un altro reame. Ha sconfitto la morte, come altri personaggi – senza dover essere per forza blasfemi – e verrà adorato a dismisura grazie a delle operazioni di marketing musicale che non hanno avuto eguali nella storia della musica (sembra anche che siano state programmate nuove uscite inedite dallo stesso Bowie in punto di morte senza lasciar nulla in mano alle case discografiche, N.d.A.). La morte non è stata che la sua ultima grande rappresentazione e messinscena artistica, e solo un vero astro oscuro potrebbe concepire una pièce del genere.
Blackstar è l’ultimo regalo fatto dal camaleontico e ormai immortale Bowie ai suoi discepoli. Le spoglie di David Robert Jones invece sono state cremate, lasciandoci orfani di un artista a tutto tondo la cui scomparsa rappresenta un’ulteriore perdita di punti di riferimento nel mondo della musica. Dopo un mesetto nulla è cambiato davvero, visto che siamo ancora qui a leggere di tutti i significati nascosti e a essere inebriati dalla malinconia di ogni singola nota di questo imponente capolavoro. Il verbo che si fa uomo, si fa vita.
E nulla davvero cambierà per un bel po’.