Che la scena post–metal d’Oltremanica non sia planetariamente tra le più fertili e che sconti un più che discreto ritardo rispetto alle terre d’adozione del genere (dalla patria nordamericana alle lande europee di più antica colonizzazione, Scandinavia e area franco-belga in primis), è nozione comunemente accettata e condivisa, ma, come per tutte le regole, c’è sempre qualche eccezione pronta ad avvalorare una tesi e contemporaneamente a porre le basi per cambiare almeno potenzialmente lo stato dell’arte.
E’ questo sicuramente il caso di un quintetto del Kent che, al netto di un quadriennio di pausa tra il 2008 e il 2012, ha tagliato il mai banale traguardo del triplo lustro di carriera potendo vantare un palmares qualitativamente di tutto rispetto, sia pure numericamente tutt’altro che sterminato in termini di rilasci. Puntando per la scelta del moniker sul sadico e sanguinario lucertolone cacciatore di taglie della saga di Star Wars, i Bossk si sono subito segnalati per gli ottimi EP di esordio .1 e .2 e, migliorandosi ulteriormente con il caleidoscopico Audio Noir, hanno avanzato una serissima candidatura a un ruolo di primo piano in terra d’Albione per chi apprezzi le coordinate post declinate con la doppia chiave della magniloquenza e della claustrofobia allucinata e visionaria, imbarcando contemporaneamente elementi di raffinato post-rock ad alta resa melodica (la conclusiva “The Reverie II”, in Audio Noir, segna probabilmente il punto di sintesi più avanzato tra l’imponenza delle strutture Cult of Luna, le abrasioni Amenra e i trasognati ricami Pelican). Con simili premesse, non stupisce che l’asticella delle aspettative per il nuovo lavoro in uscita fosse collocata ad altezze ragionevolmente impegnative e, alla prova dei fatti, questo Migration supera la prova con pochissimi problemi e con diverse frecce all’arco della qualità, a patto però di inquadrarlo opportunamente, apprezzando gli sforzi della band di arricchire la tavolozza dell’ispirazione e di allargare l’orizzonte predisponendo piani di volo dove, accanto a momenti e passaggi “attesi”, non manca l’effetto sorpresa di alcune scelte a volte finanche spiazzanti. Ecco allora che la spiccata predilezione per i tappeti strumentali distesi a profusione che aveva già contraddistinto il predecessore diventa uno dei motori del platter, aprendo squarci intrisi ora di lirismo, ora di abbandoni ambient/space, ora di suggestioni drone, il tutto tenendo sempre a più che debita distanza qualsivoglia rischio di fredda cerebralità. Ad aggiungere motivi di interesse, peraltro, contribuisce anche il monumentale capitolo ospiti, chiamati a raccolta innanzitutto per presidiare un comparto vocale che non prevede alcun contributo del “titolare” Sam Marsh (che rimane comunque membro effettivo della line-up) e che vede protagonisti un calibro da novanta come Johannes Persson direttamente dall’università Cult of Luna e un astro nascente come Josh McKeown, fresco reduce dalla grandissima prova sfoderata in Sleepless alla guida dei suoi Palm Reader. Accanto a loro, i Bossk convocano anche alcuni membri del collettivo giapponese Endon (tra cui il recentemente scomparso Etsuo Nagura), creatura anfibia dall’impossibile collocazione in un orizzonte di generi con il suo mix esasperato di punk, hardcore, math ed industrial-noise spinti al limite della cacofonia, ma che qui sono chiamati soprattutto per mettere a dimora la loro dimestichezza con la componente electro in modalità decisamente meno straniante rispetto alla prove nella casa madre. Gli effetti di questa rinnovata attenzione per l’elettronica, che si spinge addirittura a lambire inattesi confini dal retrogusto trip-hop, sono immediatamente squadernati dall’opener “White Stork”, a orecchie distratte forse poco più di un intro dalla durata impegnativa ma che a un ascolto attento svela tutto il suo potenziale come brano imprescindibile per avviare un percorso iniziatico. Si cambia immediatamente ritmo e marcia con la successiva “Menhir”, dove la presenza di Persson è gestita con un equilibrio impeccabile tale da scongiurare in pari misura le potenziali minacce di tracimazione o, all’opposto, di sottoutilizzo di un ospite così ingombrante; certo, è un brano che “suona” tremendamente Cult of Luna, ma, al di là dell’elementare constatazione che tutto ciò che meriti di trovare posto in un ipotetico Vertikal III non può mai nuocere alle sorti di un album, è impossibile non lodare l’impeccabile resa cinematografica e gli ottovolanti emozionali che sono l’indelebile marchio di fabbrica del combo di Umea e che pochi possono anche solo immaginare di riproporre senza bruciarsi le ali. Non meno riuscita e convincente, anche la prova di McKeown in “HTV- 3” finisce di diritto negli highlights del platter, grazie a un involucro core di marca Amenra sapientemente intessuto di trame melodiche in cui filtra persino qualche reminiscenza grunge, gestita opportunamente con passaggi in clean che si alternano a uno scream acuminato per larghi tratti dominante. Siamo a poco meno di metà del viaggio, ma i Nostri decidono di sorprendere regalando da questo momento in poi solo episodi strumentali, a partire dall’esile interludio “Kibo” per passare alle due tracce che apparecchiano un gran finale giocandosi carte più che autorevoli per il titolo di vertice assoluto del lavoro. Probabilmente, a un primo ascolto toccherà a “Lira” catturare l’attenzione, grazie a un’anima drone/sludge su cui vanno a innestarsi riuscitissime divagazioni (davvero notevole il cadenzato accenno doom che impreziosisce la seconda metà del brano), ma sulle lunghe distanze la partita rischia di vincerla la conclusiva “Unberth”. Avvio ambient appena increspato da onde radio in arrivo da dimensioni parallele, campi lunghi da atmosfera western in attesa degli eventi (con annessi sibili drone a materializzare sonnacchiosi serpenti a sonagli acquattati tra cactus e sterpaglia), un finale dove sei corde ed elettronica disegnano pennellate d’autore floydiane tra paesaggi cosmic e malinconici abbandoni… un posto sul podio della discografia della band è più che garantito.
Un ritorno autorevole che conferma tutte le qualità di un progetto capace di maneggiare con assoluta padronanza i rapporti di forza tra energia, vuoto e materia, ennesima prova di equilibrio tra citazioni dei grandi classici e una componente di rielaborazione personale che, senza pretendere di ridisegnare i confini del genere, riesce a trovare vene ancora relativamente pure in falde che altri si limitano a saccheggiare dozzinalmente, Migration è un album che sconta l’unico difetto di finire “troppo presto”, lasciando una nota di discreto rammarico per cosa sarebbe potuto essere con un paio di tracce in più, a maggior ragione considerato il lasso di tempo trascorso dal rilascio del predecessore. Non è ancora una supernova, ma di sicuro la stella Bossk ormai lo illumina quasi a giorno, il cielo post.
(Deathwish Inc., 2021)
1. White Stork
2. Menhir
3. Iter
4. HTV-3
5. Kibo
6. Lira
7. Unberth