“In direzione ostinata e mai contraria…”. Ci scuserà, il sommo Faber, se ci permettiamo di scomodare, oltretutto modificandolo, uno dei passaggi più significativi della sua “Smisurata Preghiera”, ma niente più di una pillola del tocco poetico del Maestro dei Caruggi può essere utile per fotografare la carriera di un quartetto da tempo assiso sui gradini più alti di un ipotetico podio della scena doom tricolore.
Stiamo parlando dei Bretus e, ancora una volta, i ragazzi di Catanzaro dimostrano che liquidare le loro release con il semplice “prendete nota del nome e sostenete la metal scena italica” è un vestito assolutamente troppo stretto (oltre che sintomo di una discreta provincialità a prescindere), quando invece ci si trova al cospetto di lavori che, non da oggi, meritano di nuotare a piene bracciate nel grande mare di un genere che, dall’originaria matrice sabbathiana, ha saputo coinvolgere latitudini e longitudini ai quattro angoli del pianeta. Certo, è innegabile che l’avvento del Terzo Millennio abbia in parte mutato, soprattutto nell’immaginario collettivo, le coordinate dell’eredità Iommi/Osbourniana (alzi la mano chi, ai tempi di Paranoid, avrebbe immaginato il proficuo scambio d’amorosi sensi con il death metal che è oggi una delle colonne portanti della trionfante scuola scandinava), ma un manipolo di eroi coraggiosi continua ad abbeverarsi alle fonti degli augusti avi, tentando ancora di distillare la pozione magica delle origini. Reduci da un trittico di full length qualitativamente di tutto rispetto culminato due anni fa nell’ottimo …from the Twilight Zone, i Bretus hanno sempre combinato con grande costrutto una solidissima ispirazione a sfondo lovecraftiano e cinematografico con un linguaggio musicale che ha fatto dell’asciuttezza e dell’essenzialità i propri assi portanti, candidandosi seriamente a quel ruolo che oltreoceano è storicamente ricoperto da una band come i Saint Vitus, pur senza rinnegare o escludere reminiscenze di marca Pentagram, Cathedral, Reverend Bizarre o Candlemass. Va da sé che, oltre alla fisiologica difficoltà di incamminarsi su sentieri imperviamente segnati da cotali orme, l’altra grande sfida che incombe su chi osi avventurarsi su simili traiettorie sta tutta nell’evitare quel fastidioso e stucchevole effetto vintage artificiale che, non di rado, corrode irrimediabilmente alle fondamenta opere che nascano con lo sguardo rivolto all’indietro. Da questo punto di vista, tuttavia, i Nostri sono una garanzia assoluta e anche il quarto capitolo della carriera è un saggio impeccabile di come si possano maneggiare i dogmi della tradizione senza scadere in un banale citazionismo o, peggio, in una piatta derivatività.
Il segreto di questo Aion Tetra, allora, è di porsi come stazione di ben più che gradevole sosta sia per chi stia viaggiando da tempo immemore sulle rotte doom, sia per chi si fosse imbattuto da poco nel genere e volesse incontrarne storia e radici. Saldato fin dal titolo il debito con le sempre presenti suggestioni lovecraftiane, il signore dell’horror e della dark fantasy rivive anche stavolta incrociando la straordinaria capacità del quartetto di mediare tra musica ed immagini (la dichiarata passione per la filmografia horror antecedente l’avvento degli effetti speciali era stata il filo conduttore del predecessore… a dimostrare che l’essenzialità è un pregio non solo tra le sette note), mettendo in scena un accattivante campionario di episodi segnati da mistero e oscurità in cui la band squaderna tutto il suo sconfinato bagaglio artistico. Una solidissima base blues e hard rock, atmosfere settantiane intrise di ammiccamenti psichedelici, più di qualche escursione in territorio stoner, tutto concorre ad esaltare i punti di forza di un platter che, detto di una sezione ritmica impeccabile nell’edificazione di strutture contemporaneamente maestose e sinistre (qui si materializza, senza traumi, l’unico cambio di lineup, con l’ingresso di Janos al basso al posto di Azog), esalta le due armi storicamente vincenti del combo calabrese. Ecco allora da un lato il cantato “teatrale” del singer Zagarus, dimostrazione vivente di come non di solo growl possa vivere un doom vocalist (ovviamente a patto di essere dotato del dono di un timbro lisergicamente coinvolgente), e dall’altro il lavoro alle sei corde di Ghenes, semplicemente perfetto nel dettare i tempi dell’entrata in scena di uno dei grandi ingredienti della poetica sabbathiana, vale a dire sua maestà il Riff, mai come in questo caso cuore pulsante di ogni traccia.
Completa la batteria delle note positive una tracklist ottimamente articolata in un crescendo di tensione che, partendo dalla muscolarità cadenzata dell’opener “The Third Mystic Eye”, svolta subito verso approdi cinematografici con il rintocco di tastiere che introduce la successiva “Priests of Chaos”, lasciando da quel momento in poi solo l’imbarazzo della scelta per l’individuazione dei momenti migliori del viaggio. Che si tratti delle spire sabbiosamente stoner di una “Deep Space Voodoo”, della melodia prima malata e poi inacidita di una “Mark of Evil” (che si iscrive di diritto nella miglior orbita Crowbar), o della splendida “Cosmic Crow”, impreziosita da uno stop and go centrale da cui si riemerge avvolti da onde quasi zeppeliniane, qualsiasi scelta è indubbiamente legittima, nella ricerca del best of del lotto, ma personalmente puntiamo sulla conclusiva “City of Frost”. Ottimamente preparati dagli arabeschi mistico/psichedelici della breve “Fields of Mars”, i sei minuti che chiudono l’album regalano scampoli di gran classe e pari emozione, chiudendo il sipario con una recita da applausi su un palco che trasuda spiriti Candlemass… e ce lo immaginiamo tutt’altro che dispiaciuto, il buon Leif Edling, per l’ardito accostamento.
Un viaggio in una macchina del tempo che tiene a più che debita distanza qualsiasi rischio di anacronistiche devozioni fuori tempo massimo, una dimostrazione di come il doom classico abbia ancora molto da dire, se affidato a mani capaci e ispirate, Aion Tetra è un piccolo gioiello che merita di essere collezionato da tutti coloro che abbiano a cuore le sorti di uno dei metal generi dal più antico e nobile lignaggio. Il decennio d’oro dei Bretus si chiude con un’altra grande prova, i confini nazionali ormai sono davvero troppo angusti, per la statura pentagrammatica di questi ragazzi.
(Ordo MCM, 2019)
1. The Third Mystic Eye
2. Priests of Chaos
3. Prisoner of the Night
4. Aion Tetra
5. Deep Space Voodoo
6. Mark of Evil
7. Cosmic Crow
8. Fields of Mars
9. City of Frost