Se andate di fretta e non avete troppo tempo per leggere questa recensione fermatevi pure qua. Vi basti sapere che questo è un disco che dovete cercare, ascoltare, comprare, scaricare, avere. Fidatevi. Se invece potete dedicarci qualche prezioso minuto, ecco qualche informazione in più. Lotus è l’esordio discografico per questo quartetto di Albany, NY, formato da Alexandria Ashpond alla chitarra, Alex Waters al basso, Jack Jackal a chitarra e voce e James Leshkevich alla batteria. La proposta dei Nostri verte su un torrido e grasso sludge/doom senza tanti fronzoli (per intenderci siamo dalle parti di Sleep e Om ma meno fumosi e sabbathiani): qua si attacca il jack e si rincorre il larsen, semplicemente.
Lotus si compone di quattro tracce senza titoli, indicate semplicemente come “I”, “II”, “III” e “IV” e questo già può farci capire che non si può non considerare tutto l’album come una lunga suite senza o quasi soluzione di continuità. La base di partenza, come riportato anche in fase introduttiva, è un doom molto molto slabbrato e sporco di unto, come sporchi e lancinanti sono gli urli di Jackal. I pezzi difficilmente si adeguano a seguire una struttura ben definita, i riff cambiano di frequente, senza venire ripetuti tante volte e la musica segue un andamento che ricorda quello che in letteratura si chiama flusso di coscienza. Certe volte sorprende che i Carnwennan (il nome del pugnale di Re Artù) non seguano pedissequamente il canone sabbathiano come vorrebbe il genere e questo si evince soprattutto nella prima traccia in cui alcuni passaggi riportano alla mente i Neurosis di Through Silver in Blood o persino i primissimi vagiti del gothic doom della santissima trinità britannica oppure, in altri momenti, quando sembra di scorgere qualche puntuale deriva più desertica in senso stoner. Ma basta riuscire a capire cos’è che ricorda quel tale riff che il quartetto cambia e ci presenta qualcosa di diverso. In altri momenti si coglie qualche passaggio più attinente al canone di cui sopra ma è bello abbandonarsi al semplice fluire della musica. Rimane a suggello di tutto la quarta e ultima traccia, più di 16 minuti di chitarra distorta che lancia gli embrioni di riff ascoltati nel disco fino a toccare il fischio del larsen per poi fermarsi subito dopo. Chi scrive non apprezza particolarmente pezzi simili dove si sente un unico strumento suonare in quasi sfrenata libertà. Eppure “IV” è la chiusura perfetta per un’importante opera prima.
Grandioso quindi il debutto dei Carnwennan, che riescono a dare senso al genere che hanno scelto che sovente sembra aver esaurito le frecce al suo arco. E il senso dato alle proprie composizioni viene fuori dalla grande passione, dall’attitudine ai limiti dell’hardcore che trasuda da questi riff, da queste grida e da questa possente batteria, facendo sì che Lotus parta da noti stilemi che vengono re-interpretati con selvaggia intelligenza. Il fiore di loto è in molte culture simbolo di purezza e bellezza che nasce in ambienti torbidi. Bene, possiamo affermare con certezza che ciò avviene con questo primo, splendido, disco del quartetto statunitense.
(Darkest Records, 2024)
1. I
2. II
3. III
4. IV