Enfatiche, roboanti, impegnative, a volte retoriche e finanche ampollose, le auto-definizioni di una band sono spesso una trappola micidiale che finisce per tracciare un solco incolmabile tra la dichiarazione di intenti posta in premessa e ciò che poi effettivamente esce dai solchi, rischiando di generare un senso di prosaica delusione frutto di un’asticella collocata ad altezze troppo pretenziosamente siderali. Capita talvolta, però, di imbattersi in percorsi artistici che interpretano davvero ciò che viene indicato (e promesso) sulle carte di identità, al punto che qualche definizione riesce addirittura a dare il proprio nome a un sottogenere. In questa ristretta categoria, il pensiero vola subito e inevitabilmente al nautik-doom degli Ahab, ma sulla strada giusta troviamo anche un terzetto svedese che, per quanto sia solo al secondo cimento sulle lunghe distanze, sta dimostrando di avere idee poeticamente chiarissime (oltre a numeri pentagrammatici da potenziali fuoriclasse).
Stiamo parlando dei Cavern Deep e di quel conceptual subterranean doom metal con cui hanno scelto di fotografare, a pieno titolo e con nitida precisione, la propria proposta. Che fossimo al cospetto di una band con solidissime basi e prospettive di crescita altrettanto allettanti, lo aveva chiarito immediatamente il debut omonimo di due anni fa, in cui i Nostri avevano dato prova di saper maneggiare con classe e intelligenza una materia doom di chiara marca sabbathiana senza mai appiattirsi sul modello. Già in quell’occasione la scelta era caduta sul format del concept, con la narrazione del drammatico viaggio di una spedizione nelle viscere della Terra, a caccia di improbabili tesori al posto dei quali gli avventurieri trovano un mondo in putrefazione. Tra richiami dark ai Type 0 Negative e qualche escursione in territori Candlemass, a quell’album è mancata solo forse una migliore compenetrazione nella trama degli spunti psych e un ricorso più convinto ai riff, ma stiamo parlando davvero di dettagli rispetto a una somma di note positive che giustificavano abbondantemente una fiduciosa attesa in vista di ulteriori pubblicazion. E il centro pieno, pienissimo, arriva con questo Part II – Breach, in cui i Cavern Deep ripropongono lo schema del concept, intraprendendo anche stavolta un viaggio sotterraneo dove desolazione, sgomento e immagini spettrali sono monito e profezia per ciò che attende l’umana specie ormai avviata su pericolosissimi crinali. Sul fronte musicale, siamo sempre in presenza di un doom dal sapore antico, in qualche passaggio anche deliziosamente vintage (se vogliamo, più Saint Vitus che Black Sabbath, alla resa dei conti) e che non strizza mai l’occhio a possibili innesti death, ma, rispetto all’esordio, la tavolozza dei colori si è ulteriormente e clamorosamente arricchita, rivelandoci una band in clamoroso stato di grazia creativa. Se, dunque, i ritmi cadenzati e una sostanziale pesantezza di fondo sono i tratti più immediatamente in rilievo, è impossibile non notare fin dal primo ascolto la vena melodica mai accattivante e ruffiana squadernata dal terzetto, che alza oltretutto il tasso di potabilità dell’insieme a livelli tutt’altro che scontati e attesi, su questi lidi sonori. All’interno di un perimetro a questo punto decisamente ampio, da un lato la componente psichedelica si innesta alla perfezione con più di qualche suggestione epic, generando un gioco di raffinati ed eleganti chiaroscuri che distillano un retrogusto malinconico, dall’altro si crea un sorprendente effetto teatrale che ammanta diversi episodi di un’aura quasi avantgarde. Su tutto, si staglia la prova monumentale alle sei corde e, ancor più, al microfono del frontman Kenny-Oswald Dufvenberg, dotato di un timbro vocale ad ampio spettro che, senza mai abbandonare la modalità clean, è in grado di spaziare con pari resa dai toni profondi e narrativi al cantilenato voluttuosamente decadente. Sei tracce dalla durata ragionevolmente sostenuta, per un ascolto che sfiora complessivamente i quarantacinque minuti, il sipario si alza subito su una delle perle della compagnia, “Breach”, che illustra alla perfezione le coordinate artistiche dell’intero lavoro tra ortodossia doom, tocchi lisergici in sospensione e un’atmosfera che assume via via tratti sempre più lovecraftiani, affollando all’orizzonte nubi cariche di inquietudine. Abbandonate le luci e i colori del mondo di sopra, tocca alla successiva “Primordial Basin” accompagnarci nei labirinti sotterranei improvvisamente spalancati e a condurci per mano, un po’ sirena ammaliante e un po’ Medusa fatale, provvede magnificamente l’ospite Susie McMullan, in libera uscita dalla casa madre Brume, con il suo cantato esotericamente ipnotico che si scioglie nel finale in un assolo hard rock impeccabilmente assestato. La componente avantgarde si affaccia prepotentemente sulla scena sulle note della notturna e malinconica “A World Bereaved” (prima di uno stop and go da cui si riparte coi riflessi prog della tastiera di Dennis Sjödin e, soprattutto, con la chitarra armata in chiave blues da un ispiratissimo Dufvenberg) e si consolida ulteriormente con il cantato quasi sgraziato e l’andatura sghemba di “Skeletal Wastes”, che poi sposta improvvisamente l’asse della traiettoria andando a sbarcare su lidi prog con le tastiere ancora protagoniste assolute. Non contenti di aver edificato fin qui un altopiano qualitativo già impressionante, i Cavern Deep si arrampicano ancora più in alto con il gioiello del lotto, “Sea of Rust”, in cui orecchiabilità, pesantezza e riflessi sinistri giocano una partita a tutto campo in un’alternanza di registri che rimanda ai momenti migliori di un capolavoro del calibro di The Tower, in casa Vulture Industries. Forse un po’ a sorpresa, ma assolutamente in linea con la scelta della band di non attardarsi mai su soluzioni consolidate o scontate, il finale è affidato alle spire lente e avvolgenti e all’andatura quasi liturgico/cerimoniale di “The Pulse”, che fa calare il sipario sul viaggio con un finale attraversato da inaspettate onde space.
Oscuro e potente ma allo stesso tempo elegante e raffinato, dotato di solidissime basi classiche su cui si innestano contaminazioni del tutto funzionali alla resa complessiva e maneggiate con raro senso della misura, Part II – Breach è un album che certifica la vitalità senza tempo di un genere come il doom tradizionale, che in troppi immaginano relegato in una dimensione di antiquariato, magari nobile ma comunque irrimediabilmente legato a epoche pentagrammaticamente ormai lontane. Se già il debutto aveva acceso riflettori più che luminosi, sui Cavern Deep, questo lavoro li segnala come mattatori assoluti sulla scena. Applausi.
(Bonebag Records, 2023)
1. Breach
2. Primordial Basin
3. A World Bereaved
4. Skeletal Wastes
5. Sea of Rust
6. The Pulse