Possono bastare poco più di cinque anni per meritarsi un posto nel ristretto novero delle eccellenze di un genere dalle radici antiche, in cui si stagliano le ombre imponenti e oltremodo impegnative di moniker che hanno fatto la storia dell’intero metal movimento? È possibile anche solo immaginare una band in grado di convocare sotto lo stesso cielo artistico l’oscura pesantezza sabbathiana, l’epicità di marca Candlemass e tocchi dark di scuola Type O Negative, per poi immergere il tutto in un fluido psichedelico attraversato da brividi lovecraftiani? In condizioni normali, l’invito alla prudenza e a raffreddare facili entusiasmi sarebbe d’obbligo, ma, quando gli Dei del pentagramma regalano incontri fatali, non resta che alzare le mani e ammettere che qualcuno è ancora in grado di scrivere pagine fondamentali nel grande libro del doom.
Per chi scrive, l’incontro in questione è stato quello con gli svedesi Cavern Deep, che, a dispetto di una carriera ancora agli inizi e con numero limitato di cimenti, hanno dimostrato fin dagli esordi di poter contare su carichi straordinari di qualità, ispirazione e originalità, tanto da meritare più che legittimamente il titolo di caposcuola di quello che loro stessi hanno nitidamente definito conceptual subterranean doom metal. Dopo il debut omonimo del 2021, in cui qualche ombra non impediva di cogliere un potenziale straordinario in attesa solo di una più puntuale messa a fuoco, li avevamo lasciati due anni dopo alle prese con una supernova qualitativa del calibro di Part II – Breach, capace di approdare al mai troppo popolato cielo dei capolavori e di rivendicare a ragion veduta la patente di immortalità anche oltre i ristretti confini del genere. Come dopo ogni ascesa dai tratti spettacolari, però, una volta raggiunte vette vertiginose, il vero problema inizia un minuto dopo, tra la comprensibile ansia di doversi ripetere e l’attesa non meno comprensibile di chi si è abbeverato a una pozione così magica e ne chiede legittimamente altre. Con simili premesse, il rischio di non poter più gridare al miracolo era oggettivamente in campo, ma gli scandinavi riescono nell’impresa di regalare un’altra prova semplicemente da applausi, confermandosi con questo Part III – The Bodiless su livelli di assoluta eccellenza, in quella che sta diventando una marcia trionfale tra gli himalayani Ottomila del doom, se ci si passa l’ardita metafora a sfondo alpinistico. Ad andare in scena è il capitolo finale dell’annunciata trilogia che descrive un viaggio nelle viscere della Terra, iniziato con l’intento di trovare tesori nascosti, proseguito incontrando le vestigia di un’antica civiltà perduta e che termina ora in un contesto tragico, tra sofferenza, perdite, entità ctonie impegnate in scontri titanici e una materia/non materia sospesa in uno stato di decomposizione e putrefazione. La formula (vincente) è la stessa dell’illustre predecessore, con dosaggi più o meno identici e quanto mai appropriati di oscurità, pesantezza, solennità al limite della magniloquenza e colpi di scena narrativi dietro cui si celano velleità teatrali/cinematografiche del tutto nelle corde della band, come sempre a suo agio quando si tratti di sconfinare nel registro avantgarde (e anche stavolta scomodiamo volentieri i Vulture Industries di The Tower, come possibile e meritatissima pietra di paragone). Sull’altro piatto della bilancia, non perde del pari terreno un approccio che possiamo definire “melodico” nel senso più nobile del termine, che, sommato a una gestione magistrale della componente psichedelica, contribuisce in maniera importante a tenere alta l’asticella della fruibilità, a patto ovviamente di concedersi immersioni totali rifuggendo ascolti distratti o superficiali. In un simile contesto di eccellenza, è impossibile prescindere dalle prove maestose dei componenti dell’ormai quartetto (visto l’ingresso in pianta stabile in line-up di Johannes Behndig, gran maestro di synth e tastiere, spese sempre senza inutili eccessi e con opportuno senso della misura), con la sezione ritmica Max Malmer/Dennis Sjödin in gran spolvero nell’edificazione di cupi monoliti e fondamentali per rendere soffocanti le atmosfere, mentre rischiamo seriamente di aver finito gli aggettivi per descrivere il doppio impegno di Kenny Oswald Dufvenberg tra microfono e chitarre. Se, infatti, il suo clean teatralizzato è ormai un marchio di fabbrica che colpisce e spicca immediatamente in un genere in cui la vulgata contemporanea prevede soprattutto growl e scream, è bene tributare onori non meno meritati alla sua sei corde, in grado di dispensare riff e assoli sempre coinvolgenti e travolgenti, tutti premiati dalle stimmate della memorabilità. Sei tracce per poco meno di quaranta minuti di ascolto complessivo, Part III – Bodiless rinuncia subito, con la title-track, a qualsiasi possibile preambolo, spalancando la porta dell’abisso su un mondo dominato da un’inquietudine austera in cui l’orrore è sicuramente una delle componenti ma, a conti fatti, tutto sommato non la principale (e citazione d’obbligo per l’ospite Marty Harvey, in arrivo dai nordirlandesi Slomatics per aggiungere un’ulteriore freccia all’arco del comparto vocale). La freddezza quasi algida che permea l’opener lascia il posto all’aura liturgico/cerimoniale della successiva “Queen Womb”, distillato aureo della poetica della band in un trionfo di soluzioni da proscenio intervallate da una vena narrativa che esalta le doti da cantastorie fuori campo di Dufvenberg. Si cambia ancora registro con l’andatura vagamente orientaleggiante di “Putrid Sentry”, su cui si posa una appena accennata patina stoner e che può finanche azzardare, senza timore di cadute, un ritornello alle soglie dell’orecchiabilità, ma tocca alle due tracce seguenti giocarsi la palma di best of della compagnia. La prima, autorevolissima candidatura è avanzata dalle spire ipnotiche che trasformano “Moskstraumen” nella perla psych del lotto (complice anche un magnifico assolo di sax, brandito per l’occasione da Martin Ludl), ma, forse, ad aggiudicarsi la vittoria sul filo di lana è “Galaxies Collide”, brano dall’inatteso retrogusto floydiano che apre sorprendenti prospettive cosmic trasportando l’ascoltatore in dimensioni contemplative forse eterne o, molto più probabilmente, solo temporanee, in una sorta di galleggiamento in sospensione nell’occhio placido della tempesta, prima che dolori e angosce riprendano il sopravvento. La calata del sipario si materializza sulle note della breve “Full Circle”, che riporta indietro le lancette del tempo e della trama là, dove tutto era iniziato, con il manipolo di esploratori pronti a scendere nelle viscere della Terra e a suggerire una ciclicità destinata a non lasciare scampo, alle umane miserie.
Un diamante dal cuore nero da cui però si irradiano colori in caleidoscopica combinazione, una miscela unica di Materia in trionfo e improvvise astrazioni dove l’incorporeità regna sovrana, un’opera che trascende la dimensione meramente musicale puntando verso esiti multimediali, Part III – The Bodiless è la clamorosa conferma di una band che ormai si aggira nel microverso doom con lo status di fuoriclasse. Non importa quanto siano alte le asticelle delle attese e della resa, i Cavern Deep semplicemente saltano… e le superano di slancio.
(Bonebag Records, Majestic Mountain Records, 2025)
1. The Bodiless feat. Marty of Slomatics
2. Queen Womb
3. Putrid Sentry
4. Moskstraumen feat. Martin Ludl
5. Galaxies Collide
6. Full Circle